Capitolo Diciannove

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CAPITOLO DICIANNOVE

Claudio

10 novembre

Il suono acuto, forte, ripetitivo e fastidioso del telefono mi sveglia di soprassalto, scuotendomi con prepotenza dal mio sonno tranquillo.

Con il cuore che batte in maniera accelerata, afferro il cellulare accanto a me, spaventato per questa telefonata improvvisa ricevuta nel pieno della notte.

Guardo lo schermo e quello che compare è il numero fisso della comunità. Rispondo velocemente, sperando non si tratti di qualcosa di grave. Le ultime volte non sono mai state buone notizie.
Il mio pensiero va subito a Mario.


*


"Mario ha bisogno di te", continua a rimbombarmi nelle orecchie come un mantra dal momento in cui ho chiuso la telefonata, anche ora che sto attraversando il cortile esterno della comunità. Mario ha bisogno di me. Hanno detto che non è grave, ma Mario ha bisogno di me. Hanno detto di non preoccuparmi, ma Mario ha bisogno di me.

Dopo aver lasciato le mie cose nella stanza del personale, salgo rapidamente le scale fino a raggiungere il corridoio in cui si trova la stanza di Mario e, prima di entrare, busso, senza far troppo rumore, per annunciarmi.

Il mio sguardo vaga per l'intera stanza fin quando non lo trova, e il mio cuore si tranquillizza un po' perché, per fortuna, è vivo, è intero ed è nella sua camera, e non in un letto di ospedale come le ultime volte.

Accasciato a terra, la testa nascosta dalle braccia che circondano le gambe, le ginocchia al petto. Un pulcino indifeso, rannicchiato su se stesso in un angolo della stanza.

Un singhiozzo lo scuote da cima a fondo, facendomi preoccupare più del normale.
Sta piangendo.
Allarmato muovo qualche passo nella sua direzione mentre il mio collega, che gli ha evidentemente tenuto compagnia fino a questo momento, mi saluta dicendomi che ci lascia soli e torna al piano terra.

Mi inginocchio di fronte a lui e gli accarezzo i capelli scuri, rassicurandolo mediante la mia vicinanza e presenza.
"Hey..", sussurro piano, cercando di alzargli il volto completamente rivolto verso il basso e non visibile. "Ci sono io, adesso".

Un altro singhiozzo strozzato lo agita, mentre tira su con il naso e lentamente alza il viso puntando i suoi occhi rossi e pieni di lacrime nei miei. Ci guardiamo per qualche istante, incapaci entrambi di dire o fare qualsiasi cosa se non scrutarci e parlarci tramite gli sguardi, come sempre più bravi a capirci così che con le parole. Poi, però, Mario allunga un braccio verso di me, stringendo le dita attorno alla camicia a quadri che indosso, e senza preavviso si getta tra le mie braccia stringendomi con forza e calore, lasciandosi andare ad un pianto liberatorio.


*


"Ti ho bagnato tutta la camicia", mi sussurra triste, con il volto esausto e gli occhi gonfi mentre io, ancora inginocchiato di fronte a lui, scaccio via gli ultimi residui di pianto dal suo volto. La sua pelle è così liscia e morbida che quasi ho paura di romperlo solo accarezzandolo. "Non fa niente", gli sorrido sincero, alzandomi da quella posizione scomoda, offrendogli poi la mano per aiutarlo ad alzarsi a sua volta.

"Cos'è successo?", gli domando aprendo la porta del bagno e facendogli segno con la mano di seguirmi. Tiro la porta del box doccia e regolo l'acqua sulla giusta temperatura.

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