Passato III

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Tremiladuecentonove secondi da quando ho sentito lo sparo. Quasi cinquanta minuti da quando la macchina è partita. Provo a calmare il mio respiro frenetico e le mani tremanti dicendomi che non è successo il peggio, che non sono cosi folli da uccidere un Angelo, o peggio una ragazza che non c'entra niente. Mi illudo che papà senta che non sto bene, che qualcuno abbia visto la scena e ci abbia seguite.

Che qualcuno sappia dove siamo perché è da più di mezz'ora che stanno guidando sullo sterrato e la foresta attorno a Tateville e tanto fitta quanto spaventosa. Siamo troppo lontani da casa, provo ad immaginarmi la mappa che Boston teneva tra le dita pochi attimi fa, a disegnare mentalmente il territorio e a capire in quale club possiamo trovarci, se siano amici o nemici e se possono trovarci in poco tempo. E poi la macchina inchioda.

Sento voci soffuse e lamenti mentre il mio cuore accelera, sento le portiere sbattere e scuotere il mio piccolo buco. Mi lasciano all'aria aperta, chiusa in una scatola per troppo. Mi rannicchio nel tentativo di riscaldare il mio corpo, tremo cosi tanto da battere i denti, non mi sento più le dita e mi gira la testa. Quando la luce invade il mio piccolo spazio sono troppo debole per mettere a fuoco il viso di colui che mi tira fuori. Vengo portata in uno stanzino sul retro, mi obbliga a trascinare i piedi e mi lancia sul pavimento in legno quando oso oppormi.

La serratura che blocca dietro di lui strappa un altro pezzettino della mia speranza. Respiro più che posso tenendo la fronte appoggiata al pavimento, ringrazio per il caldo che mi avvolge perché le mie membra sembrano essere meno intorpidite.

Pensa Elena. Mi dico più volte prima di sentire il suo lamento, un suono debole e senza significato. Scatto verso sinistra e la vedo li, accovacciata nell'angolo dietro la porta con le gambe strette al petto e la testa sulle ginocchia.

"Miranda?" chiedo col filo di voce che mi resta, ho urlato per tutto il tragitto fino a qui, ho urlato anche quando mi hanno abbandonata fuori. Non mi risponde, piange silenziosamente provando a stringere di più il suo corpo, a farsi più piccola, a nascondersi nell'ombra. "Em." Sussurro avvicinandomi, trema tutta quando le sfioro la testa. Vorrei dirle che andrà tutto bene, che penseremo a qualcosa, che papà arriverà, ma niente mi esce dalle labbra gelate, non dopo averle visto la faccia e gli occhi pieni di lacrime.

Deve aver avuto addosso un vestito, di cui resta ben poco perché è stato ridotto a brandelli. Tremo troppo ma provo, senza riuscirci, a levarle le unghie conficcate nelle gambe. Le accarezzo le spalle e la braccia, come a volerla riscaldare.

"Per quanto mi hanno lasciata fuori?" ho il petto e la gola in fiamme, mentre il naso e le guance ricordano la temperatura di prima. Non c'è ritorno da questo, o perdono. Il terrore s'insinua dietro i miei muscoli, nelle ossa – penso per la prima volta che non sia un rapimento per cui chiedere ricompensa, ma semplicemente una condanna a morte. Non è l'atteggiamento di chi ha intenzione di liberarci, siamo ostaggi in una guerra, vittime che non ne usciranno intere.

"Ore." Interrompe il filo dei miei pensieri e annuisco, non posso fare altro. Mi sono concentrata troppo sulle sensazioni, mi sono dimenticata di contare. Mi alzo in piedi e uso l'elastico che ho attorno al polso per fare una cipolla alla base del collo, per la prima volta i miei lunghi capelli sono un impedimento, un'arma nelle mani del mio nemico. Resta lucida mi ripeto come un mantra, e ho solo una cosa che alimenta la mia determinazione, un'unica cosa che mi dia forza – è seduta per terra e mi fissa con occhi spalancati.

Lo stanzino in cui ci hanno rinchiuse è piccolo, quattro mura e una piccola finestra sporca abbastanza larga da far passare luce per vedere, ma non abbastanza per poterne uscire. C'è solo un materasso vecchio e sporco, buttato su una rete arrugginita e un secchio nell'angolo opposto.

Tutto o nienteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora