Pausa

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Giorni.

La mia decisione mi pesa appena apro gli occhi, la sento come un mattone sulle spalle mentre mi dirigo giù, mentre trascino i piedi nella cucina e persino quando saluto Mat. Al secondo sorso di caffè penso che dovrei chiamarlo, che in fondo non ero del tutto lucida, che ho bisogno di lui per funzionare, per dormire, per essere umana. Mat mi spinge un biglietto tra le dita:

Ricky e Taz hanno fatto la spesa, chiedono il solito.

Sorrido scuotendo la testa, si aspettano che le ricette russe le vengano bene al primo tentativo, ma ci vorrà tempo prima che si avvicini a me; anni di pratica per aspirare ad essere come Babi. Inizio a dirle da cosa cominciare, che recipienti servono e come preparare gli ingredienti.

Sorseggio il caffè, e mi perdo nei forse e ma fissando la luce che piano, piano scompare dal mio giardino sotto sopra.

Due colpi sul bancone mi fanno tornare al presente, ci guardiamo e sorridiamo perché è la terza volta che lo fa: mi riporta alla realtà con un coltello e un tagliere. Continuo con le istruzioni finché il rimbombo di una moto mi toglie la voce, cerco di essere disinvolta mentre il cuore va all'impazzata e il cervello smette di ragionare.

"Vai, e digli che siamo in pausa!" Resto immobile mentre lei alza gli occhi al cielo. La fisso scomparire oltre il muretto e m'irrigidisco e smetto di respirare quando sento la porta aprirsi.

"Ti ho detto che voglio una pausa!" la frase mi muore in gola quando una ragazza sui ventidue, forse ventiquattro anni si blocca oltre la mia isola. Ha lo sguardo deciso, stringe i pugni e tira indietro le spalle mentre mi fissa, tira fuori il petto mentre mi percorre il corpo più volte.

"Lui è mio." Dice a denti stretti e penso di essere finita nel mio peggior incubo: quello in cui una resta incinta mentre l'altra pretende di possederlo. Il problema è che sembra vera, meno finta dell'altra con un bel viso, labbra definite e una treccia nera che va oltre il seno. A lui piacciono i capelli lunghi, me lo ha detto una volta, anni fa. Lei cavalca moto.

Mat si avvicina fissandomi la mano, punta il coltello che ho stretto nel pugno, quello che prima usava per le cipolle.

Pure io so far lacrimare occhi.

"Scusa, non ho capito..." Riesco a far passare tra le labbra asciutte.

Basta un movimento di polso in fondo. Una spinta. Quattro ruote hanno sempre la meglio su due.

Il mio tono monotono non le fa effetto. L'arma bianca puntata contro un po si. L'allontano dalle dita furtive della cuoca e mi avvicino. Un passo alla volta.

Basta poco.

"Ho detto che è mio!" ripete imperterrita, con un tono un po' più alto. Ma cosa vuol dire in fondo possedere?

Tenerti un'anima fusa alla tua?

O forse intrappolarla mettendone al mondo una nuova?

Manda giù saliva e spalanca gli occhi mentre avanzo. Non ho ancora fatto movimenti bruschi, le bestie vanno domate prima ancora d'essere sgozzate. Mi basterebbe forse toglierle la stupida giacca di pelle che ha addosso, o la treccia – magari solo il respiro. Mi piego sul bancone puntandoglielo contro:

"Lui chi?" faccio la finta tonta, perché pure l'altra stupida Rossa non sapeva il suo nome.

Non sanno mai il nome di quello che si scopano.

"Lo sai." Tiene ferma la postura: non trema, non s'allontana. Se solo non fosse per gli occhi spalancati e quelle dita ben strette ed ornate da anelli.

Tutto o nienteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora