33. Sotto le stelle

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MATHIEU

Dopo aver avvisato i miei amici, tornai da Belle. Aveva un'espressione persa e confusa, quella canzone aveva risvegliato in lei delle emozioni troppo grandi per essere represse. Chissà cosa l'aveva portata a piangere e a fuggire via dalle mie braccia quasi come se fossi il demonio in persona.

Lei amava quel ragazzo, anche se non voleva ammetterlo, c'era qualcosa di molto forte che li legava e, nonostante la situazione mi creasse un certo disagio, mi dispiaceva vederla così triste e chiusa in se stessa. Le appoggiai una mano sulla spalla, aveva il collo teso e la pelle gelata. Le lacrime per fortuna erano cessate, ma un velo di malinconia avvolgeva ancora i suoi occhi.

«Quando vuoi, andiamo...»

Non sapevo bene come comportarmi con lei in quello stato. Avevo paura di fare o dire qualcosa che potesse in qualche modo farle del male. Alzò gli occhi per una breve frazione di secondi, abbastanza per farmi capire quanto stesse soffrendo.

«Scusa per prima, non volevo scappare da te.»

Percepii una morsa al cuore e restai a fissarla nel tentativo vano di leggere i suoi sentimenti. Avrei voluto avvicinarmi quel tanto che bastava per abbracciarla e riscaldarla, ma avevo paura. Sembrava fragile e sull'orlo di spezzarsi da un momento all'altro.

«Non devi scusarti, mi è solo dispiaciuto non poter fare nulla per impedire il tuo pianto» confessai pentendomene subito. Sentivo di aver usato le parole sbagliate, le avevo ricordato la causa delle sue lacrime. Scosse la testa, per poi avvicinarsi alla macchina.

«Non potevi fare nulla in realtà. Andiamo via, fa freddo qui fuori.»

«D'accordo.»

L'accompagnai al suo sportello, facendola finalmente sorridere quando aprii la portiera. Non era da me fare il gentiluomo, anzi, mi sentivo piuttosto impedito, ma avrei fatto di tutto per cancellare quell'espressione infelice.

«Grazie» rispose a quel gesto con imbarazzo.

Era proprio bella e non se ne rendeva conto; aveva paura di mostrare i suoi occhi, la sua bellezza, il suo sorriso e questo mi affascinava molto di lei. Era diversa dalle mie compagne universitarie, a volte sembrava vivere su una nuvoletta tutta sua... e mi faceva impazzire, perché non riuscivo a capirla e a difenderla da quelle paure che le impedivano di essere se stessa.

Durante il tragitto calò tra di noi un profondo silenzio, eravamo entrambi in difficoltà e questo era evidente dal suo evadere ogni volta che provavo a guardarla, ogni volta che volevo raggiungere il suo cuore.

«Ti piacciono i parchi?» La mia domanda poteva suonare un po' strana in quel momento, ma volevo distrarla dai suoi pensieri.

«Sì, perché?» Ero felice di averla incuriosita, avevo voglia di fare qualcosa con lei. Qualcosa di diverso...

«A Brooklyn c'è un parco molto grande e particolare, è posto di fronte al ponte.» Mi fissò con occhi sognanti, forse avevo trovato il metodo giusto per togliere un po' di tristezza da quei due smeraldi. «Spesso ci vado per stare solo e godermi qualche attimo di pace oppure quando non trovo ispirazione per le canzoni. Stare lì, osservare la natura, il cielo, le persone... mi aiuta a riflettere, a distaccarmi dai problemi.»

«Quando abitavo a Portland, anch'io mi rifugiavo spesso al parco. All'inizio ci andavo da bambina con i nonni e Steven, poi ho continuato ad andarci anche quando sono cresciuta.»

Le sue labbra presero a sorridere, ma con un pizzico di nostalgia.

«Allora puoi capirmi.»

Ci scambiammo un altro dei nostri sguardi, ormai non potevo fare a meno di osservarla per riuscire ad afferrare le sue emozioni.

La Ragazza che cuciva sogniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora