36. Verso Staten Island

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Dopo circa cinquanta minuti, giungemmo a Staten Island. Durante il percorso non ero riuscita a pronunciare mezza lettera, ero troppo in ansia e impegnata a formulare un discorso serio da fare a mio padre. Mathieu concentrato com'era sul navigatore non aveva proferito parola, i suoi occhi sembravano preoccupati quanto i miei. Forse si stava pentendo anche lui di quella assurda ricerca?

Staten Island, pur trovandosi a New York, era molto diversa dai distretti di Manhattan e Brooklyn. I grattacieli erano scomparsi lasciando spazio a delle graziose villette in stile coloniale.

Mentre il mio compagno di viaggio percorreva le strade dell'isoletta, notai molti parchi e giardini. Chissà come sarebbe stato visitarla in altre circostanze...

«Siamo arrivati.» Parcheggiò l'auto di fronte a una lussuosa villa, circondata a sua volta da altre case simili. «Andrà tutto bene, dobbiamo solo procedere con il nostro piano. Bussiamo alla porta e ci presentiamo come giornalisti di un'emittente televisiva.»

Quel piano era decisamente buffo, ma era l'unica maniera per investigare su un perfetto sconosciuto senza essere guardati come due truffatori o membri di una setta religiosa.

Annuii poco convinta e ci avviammo verso la porta di un'elegante casa immersa nel verde. Prima che Mathieu potesse posare le dita sul campanello, sospirai agitata.

«Ti prego, fermati!»

Mi fissò impensierito e abbassò la mano verso i suoi jeans scuri.

«Cosa c'è?»

«Non sono sicura che sia un buon piano.» Era stupido presentarci come giornalisti.

«Puoi sempre dirgli la verità e sperare che lui sia sincero nei tuoi confronti.»

Perché voleva mettermi in difficoltà? Sapeva benissimo quanto fosse difficile per me parlare con quell'uomo.

Senza che potessi replicare, vidi Mathieu bussare rapidamente. Il mio cuore iniziò a battere tanto forte da spaventarmi. Se non fosse stata per l'ansia che provavo, avrei pensato a un attacco di cuore.

Qualche minuto dopo, una chioma bionda e due occhioni verdi spuntarono da dietro la porta. Era un dolcissimo bambino sui tre o quattro anni, dietro di lui sopraggiunse una donna alta e dall'aspetto signorile. Il mio cuore cessò per un attimo la sua corsa: il mio papabile padre non solo era sposato, ma aveva anche un figlio. Con che coraggio potevo scagliare un tornado distruttivo sulla loro casa?

Non posso farcela... Dissi a me stessa di fronte a quegli occhioni verdi che mi fissavano curiosi. Poteva essere mio fratello e io ero andata a casa sua per rivelare una verità sconveniente. Sperai con tutta me stessa che quel Jonathan Wood non fosse mio padre.

«Salve.» La donna salutò entrambi sorridendo, almeno non ci aveva scambiati per due truffatori.

«Buon pomeriggio, questa è casa Wood? Siamo qui per un'intervista al signor Jonathan» esclamò con tono convincente Mathieu.

«Sì, Jonathan è mio marito. Potrei sapere di che intervista si tratta?» Bella domanda: cos'era pronto a inventarsi il mio adorabile collega?

«Siamo qui per raccogliere informazioni sull'infanzia di suo marito. La nostra emittente televisiva in questi giorni manderà in onda un servizio riguardante i cittadini di Staten Island.»

La signora, dapprima sorridente, iniziò a studiarci in modo serio e sospettoso. Sapevo che non ci sarebbe cascata.

«Charles, vai a chiamare papà!»

E così era quello il nome del bambino...

«Ok, mamma.»

Prima di andar via, Charles mi lanciò un simpatico sorriso e ricambiai con uno altrettanto dolce.

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