17. Ultimo giorno di prova

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Mi trovavo in una casa di campagna, alcune pareti erano spoglie e i pochi mobili presenti impolverati. Tutta quella polvere conferiva all'abitazione un aspetto abbandonato, ogni cosa attorno a me era buia e tetra. A un tratto percepii un brivido familiare lungo la nuca. Il respiro si fece corto e una sensazione di angoscia frenò bruscamente i miei passi. Le gambe erano pesanti, i piedi erano immobili e doloranti, come se avessi camminato a lungo e senza una destinazione.

Fui investita da una folata di vento, la finestra si spalancò risucchiandomi all'esterno della casa. Era notte fonda, attorno a me la natura morta e spenta decorava l'intera abitazione, rendendola ulteriormente macabra. In lontananza udii un rumore flebile. Con il cuore in gola e la fronte sudata mi voltai a guardare...

Aprii gli occhi spaventata, di nuovo l'immagine di quell'uomo era tornata vivida nella mia testa, ma questa volta il suo volto aveva assunto dettagli nuovi, dei colori che prima non conoscevo. Era assurdo, per la seconda notte di fila avevo sognato mio padre. Entrambi gli incubi erano stati agghiaccianti ed erano ricominciati con il mio trasferimento a New York, quasi come se volessero dirmi qualcosa.

Sospirai e mi allontanai dalla mia stanza per fare colazione. Quella mattina in cucina non c'era nessuno. Louise mi aveva lasciato un bigliettino accanto alla torta di mele. Mi augurava buona giornata, aveva il turno all'ospedale e quindi ci saremmo riviste solo a cena. Sorrisi per quelle premure e restai a mangiare da sola, per la prima volta dopo giorni. Il silenzio mi fece riflettere a lungo su mio padre e quegli incubi. Da piccola li facevo spesso, ma durante il liceo solo di rado, per quello non riuscivo a capire perché fossero ritornati a tormentarmi con tanta insistenza, pensavo di aver superato quel periodo e invece forse mi sbagliavo.

Preoccupata cercai di spostare la mia attenzione sul lavoro. Era l'ultimo giorno di prova e avrei dovuto accelerare ancora di più il ritmo, ormai mancavano pochissime cuciture per scoprire il mio destino all'interno della sartoria. Uscii quindi di casa sentendomi più tranquilla, almeno per quanto riguardava la realizzazione dell'abito, tutto il resto invece... beh non volevo nemmeno pensarci.

Salii sull'autobus e varcai il corridoio, come ogni mattina incontrai lui: il ragazzo gentile che mi riservava il posto. Accennai a un saluto timido e spostò lo zaino per farmi sedere.

Più passavano i giorni e più il suo aspetto iniziava a diventare familiare, forse anche troppo. Di lui avevo notato i capelli arruffati e neri, completamente in contrasto con il colore chiarissimo della sua pelle. Grandi occhiaie gli incorniciavano gli occhi bruni, probabilmente non dormiva molto, perlomeno era quello che rivelava il suo sguardo stanco. Le sue mani, lunghe e spigolose, reggevano un quadernino, se lo trascinava dietro ogni giorno, assieme al suo zaino. E lo teneva stretto, come se sentisse l'esigenza di custodirlo.

«Frequenti il college?» La sua domanda mi colse impreparata. Pensai addirittura di essermi sbagliata, in fondo il tono della sua voce era stato così sommesso...

«Parlavi con me?» chiesi titubante. I suoi occhi erano due pozzi senza fondo completamente imperscrutabili.

«Tu che dici?» La sua voce flebile, ma impertinente, mi fece arrossire all'istante. Cercai di reprimere il mio imbarazzo sfiorandomi i capelli. «Allora? Sei una studentessa?»

«No, non ancora almeno, ma lavoro in una sartoria a Manhattan.» Perché stavo rivelando quelle informazioni private a un perfetto sconosciuto?

«Capisco...» In tutta risposta si voltò a guardare il finestrino. Per un attimo mi parve di notare un leggero sorriso, ma fu solo un misero secondo. Se fossi stata più coraggiosa avrei potuto fargli la stessa domanda, ma ero troppo timida e così finimmo per restare in silenzio, ancora, come il giorno precedente.

La Ragazza che cuciva sogniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora