68. Un sorriso che fa male

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Sconvolta rientrai in casa, con il cuore in affanno e un fastidioso senso di nausea che mi attanagliava lo stomaco. Dov'era andato Mathieu? Perché non mi aveva dato il tempo di spiegargli la situazione? Aveva frainteso il bacio, si era convinto che avevo scelto, che avevo scelto di stare con Steven. Non osavo nemmeno immaginare come potesse sentirsi in quel momento.

Sopraffatta dalla stanchezza, mi buttai sul letto. Daphne, la mia adorata coniglietta, mi fissava da lontano leccandosi il pelo di tanto in tanto.

«Cucciolina, la tua padrona ne ha combinata una nuova» dissi più a me stessa che a lei.

Amavo Mathieu, lo amavo davvero ed era una sensazione bellissima, ma allo stesso tempo dolorosa, perché sapevo che con quel bacio gli avevo spezzato il cuore, tutto ciò che non avrei mai voluto fare. Sospirai angosciata, le lacrime si affollarono sul mio volto, sentii la tensione che avevo accumulato nell'ultima ora colpirmi più volte alle tempie. Avevo allontanato la persona che amavo a causa di uno stupido equivoco.

Osservai il polso e più precisamente il bracciale che mi aveva regalato Mathieu. Era da più di un'ora che se n'era andato e la preoccupazione mi stava logorando. Quanto avrei voluto comunicare con lui e dirgli quello che provavo, che tra me e Steven era rimasta solamente una splendida amicizia e che era lui la persona che amavo, il ragazzo che con una canzone mi aveva fatto tremare il cuore e le corde dell'anima.

Ma cosa potevo fare? Se non restare lì ad aspettarlo, ad attendere un rientro che probabilmente non ci sarebbe stato. Passai l'intera notte sveglia, a rigirarmi in quel letto dove avevo dato il mio primo bacio a Mathieu. Passai l'intera notte con un mal di testa atroce, sperando di sentire un minimo suono provenire dallo studio accanto al mio, ma niente, solo tanto silenzio. Trascorsero i giorni, terminai l'abito per il concorso, ma non vidi Mathieu tornare a casa.

Un pomeriggio, stufa e un po' disperata, chiesi a Louise notizie di suo figlio. Mi spiegò che si stava trasferendo nell'appartamento affittato con i suoi compagni di band. Mi rivelò che andava a trovarla la mattina, quando lavoravo, per recuperare le sue ultime cose e salutare definitivamente quella grande casa che, senza di lui, era incredibilmente vuota.

Provai a domandare alla madre del ragazzo che amavo il suo indirizzo nuovo, ma con una risposta vaga si rifiutò di darmelo. Possibile che fosse stato Mathieu stesso a chiedere ai genitori di non darmi informazioni? Di tenermi fuori dalla sua vita? Di quei mesi vissuti a New York era rimasto soltanto il mio lavoro, un sentimento che mi soffocava ogni giorno e nient'altro.

Un venerdì mattina, chiesi a Norah il permesso di rientrare prima a casa; la speranza di rivedere Mathieu era davvero sottile, volevo aggrapparmi all'unica possibilità che avevo di incontrarlo, non potevo lasciarlo andare senza parlargli. Avrei potuto provare a cercarlo in uno dei locali dove si esibiva. Come avrei potuto continuare a chiamarlo sul suo cellulare per urlargli il mio sentimento, chiedergli scusa e fargli capire quanto ci tenessi a essere la sua ragazza. Che lo avrei amato e sostenuto ogni giorno.

Quando varcai l'entrata di casa, corsi su per le scale con l'illusione vana di rivederlo. Avevo la forte sensazione di poterlo scorgere nella sua stanza, magari con una maglietta tra le mani o un libro o uno dei suoi tanti album musicali.

«Mathieu...» pronunciai di fronte alla soglia della sua camera. Sperai con tutta me stessa che non si trattasse solo di un miraggio e che il ragazzo che stava preparando la valigia esistesse davvero. Che non fosse un'allucinazione dettata dalla voglia infinita di rivederlo.

Feci qualche passo verso di lui, con il respiro corto e il cuore che mi batteva all'impazzata. Erano trascorsi esattamente otto giorni da quella sera e in otto giorni mi era mancato tantissimo.

«Mathieu...» ripetetti, osservandolo con dolcezza, lui ricambiò con una smorfia di disprezzo.

«Non dovresti stare in sartoria?» domandò nervoso e per un attimo mi ricordai del ragazzo sgarbato che avevo conosciuto circa quattro mesi prima.

Per lui ero di nuovo un'estranea, la ragazza che aveva occupato la sua stanza e che gli aveva frantumato il cuore in milione di cocci.

«Sono rientrata prima.» Avevo finalmente la possibilità di chiarire, ma il coraggio era scomparso per lasciare spazio alla paura. La terribile paura che avevo di perderlo per sempre.

«Ok...» Continuò a fare i bagagli, non degnandomi di uno sguardo.

«Come, come stai?» Feci una di quelle domande che si fanno quando non si ha nulla da dire, ma in realtà dentro hai un mare di emozioni e se non sai restare a galla rischi di affogare.

«Bene» rispose. Non era vero, nessuno dei due stava bene. Glielo leggevo nello sguardo sofferente che non poteva sopportare la mia presenza, che gli procuravo fastidio e repulsione.

«Mi dispiace...»

«Non voglio parlarne, non voglio sapere come ti senti ora che hai finalmente scelto il ragazzo della tua vita. Non voglio sapere più nulla di te e di ciò che potrebbe riguardarti» replicò con una freddezza tale da colpirmi dritto allo stomaco.

Sospirai, andando leggermente nel panico, quella era la mia occasione, non potevo arrendermi. Mi accostai a lui, che incurante piegava i suoi pantaloni gettandoli uno a uno nella valigia. Appoggiai la mano sulla sua, ma la ritrasse con sdegno.

«Cosa vuoi?!» Finalmente mi guardò con i suoi occhi neri, i suoi occhi lucidi e infranti, come lo erano le mie speranze.

«Vorrei poter spiegare.»

«Non adesso, ti prego...» La sua voce era più rauca del solito. I suoi occhi pieni di amore e odio. Mi aveva appena supplicato di non parlare, di non premere troppo sulle sue ferite.

L'avevo capito quanto facesse male per lui guardarmi e non poter nascondere le sue emozioni. L'avevo capito quanto si sentisse vulnerabile e avevo capito che mi stava chiedendo tempo. Che non era pronto ad affrontare quel discorso.

«D'accordo, come vuoi.» Indietreggiai rassegnata.

Se fossi stata più egoista, probabilmente lo avrei abbracciato, ma in quell'istante le lacrime che stava faticando a trattenere per orgoglio mi frenarono dal violare i suoi spazi. Lui aveva bisogno di restare solo, aveva bisogno di tempo e dovevo accettarlo.

Uscii dalla sua stanza ed entrai nella mia, richiudendo in fretta la porta. Con le spalle appoggiate al muro, che mi separava da lui, scivolai giù, fino a toccare il pavimento freddo. Non avevo voglia di piangere, ma di restare lì, immobile, ad ascoltare le lancette dell'orologio, il rumore dei suoi passi, il vento che si scagliava sui rami di un albero... Rimasi ad ascoltare i suoi sospiri, il cursore che scorreva lungo i bordi della sua valigia, una porta che si chiudeva e poi il vuoto. Di nuovo quel silenzio assordante, interrotto solamente dal frusciare delle foglie contro la finestra della mia camera.

Com'era difficile amare, lo era davvero tanto, soprattutto quando l'amore era mischiato ad altri sentimenti come la rabbia, la disperazione e la paura.

Il cellulare che avevo in tasca vibrò. Lo presi in fretta con l'illusione di poter leggere un suo messaggio. Con l'illusione che ci aveva ripensato e voleva parlare. Quando vidi il nome del mittente e il contenuto, la delusione mi offuscò la vista. Non era Mathieu, ma Norah, non era un messaggio di ripensamento, ma una notizia. Incredula, rilessi le parole per la seconda volta:

"Ehi, Belle, ce l'abbiamo fatta! siamo tra i dieci finalisti che parteciperanno alla sfilata!"

Sorrisi, ma quel movimento così spontaneo mi fece assurdamente male, non potevo essere felice, non ce la facevo. Allora chiusi gli occhi e lentamente mi addormentai, seduta su quel pavimento, con Daphne a fianco. Dentro di me e in quei sogni sbiaditi volevo solo rivedere Mathieu...

La Ragazza che cuciva sogniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora