Ricordi murati vivi e ferite aperte

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Iris stava piangendo, per lui, per Michele, per il casino che aveva combinato, ma soprattutto per la rabbia di dover sempre rovinare tutto, anche quando le cose si sarebbero potute sistemare. Gli aveva detto che se voleva stare con lei doveva prima conoscerla fino in fondo e poi decidere di che morte morire. Che cosa intendeva? Le sembrava logico in quel momento, ma ripensandoci non aveva alcun senso. Lei voleva cambiare per lui, solo per lui avrebbe potuto modificare quel carattere rude e cattivo che aveva e magari avrebbe scoperto cosa voleva dire essere innamorata o provare dei veri sentimenti per qualcuno, invece del costante odio per la madre e la vita in sé che faceva schifo per principio.

Forse sarebbe stato meglio se lui l'avesse seguita, l'avesse lasciata spiegare e magari tutto sarebbe tornato apposto come lo era il giorno prima, avrebbe avuto un altro bacio e magari in quel momento non si sarebbe sentita così sola su quello stupido ramo. Forse era lei la stupida, l'albero non centrava niente. Tirò su col naso e si asciugò le lacrime con le maniche della felpa rossa che indossava, con violenza e lasciando diventare rosse le sue guance candide. In quel momento voleva provare un dolore così forte che avrebbe sovrastato quello al petto e quello del risentimento, invecchiato da sette anni.

Nell'astuccio che aveva nello zaino c'era un paio di forbici, che sarebbero state abbastanza affilate per ferirla, solo un po', solo per sentire quel bruciore e vedere del sangue che usciva dalla sua pelle diafana e la macchiava di rosso. Toccò la lama con il pollice e decise che sarebbe stato sufficiente pressare poco per creare una ferita non troppo profonda.

Tremando la appoggiò sulla delicata pelle del polso, rivolto verso l'alto, dove non si sarebbe notato troppo e iniziò a respirare affannosamente. Ricominciò a piangere, spinse un poco sulla carne con la punta delle forbici, sentì subito il dolore inconfondibile di un taglio. Continuò per qualche centimetro, vedendo le prime gocce di sangue uscire, ma poi si fermò di scatto e lanciò le forbici per terra, infilzandole nel prato verde sottostante. Urlò di orrore, rendendosi conto di quello che aveva appena fatto e si tamponò il polso immediatamente. Non era andata a fondo, era un piccolo taglio, superficiale, ma se non si fosse fermata, avrebbe di sicuro combinato un casino.

Respirava a fatica e singhiozzava: sarebbe potuta morire, suicida, come una perfetta egoista. Si odiava, odiava la vita e odiava sua madre. Quell'assassina che le aveva portato via suo padre. Aveva deciso che gliel'avrebbe fatta pagare, con tutte le sue forze, fino a quando non l'avrebbe vista dietro le sbarre, con una bella tuta arancione e una compagna di cella tosta e dura.

Scese dal ramo, spinta dalla rabbia e prese il suo zaino, si incamminò velocemente e arrivò davanti alla sua vecchia casa. Era già abitata, quindi avrebbe dovuto disturbare per entrare. Provò a suonare, ma non rispose nessuno. Sbuffò, ma dopo qualche minuto si ricordò di avere ancora le chiavi, che aveva rubato dal cassetto in camera di sua madre.
Il chiavistello scattò ed entrò dentro la casa vuota. Quell'odore, quei mobili scuri e quel tremendo silenzio le procuravano solo brutto ricordi. Vedeva il corpo del suo papà per terra, pallido più del solito e con gli occhi spalancati, immerso nel sangue che usciva dalla ferita. Serena, in ginocchio vicino a lui che piangeva e quella piccola sé stessa che assisteva alla scena terrificante.
Scosse la testa nervosamente come a voler scacciare quell'immagine dalla sua testa e poi oltrepassò l'ingresso, diretta verso la sua vecchia stanza.

Infondo sapeva che tutto quello che stava facendo, non era per niente corretto, ma doveva approfittare dell'assenza dei proprietari di casa per prendere la pistola.
Sì, sua madre l'aveva nascosta bene, e anche se credeva che nessuno avrebbe notato quell'abbondanza di intonaco sul muro dietro l'armadio della cameretta, una volta che i nuovi proprietari avrebbero cambiato i mobili e rifatto la carta da parati, Iris lo sapeva. L'aveva vista, mentre lei bucava il muro alla buona e ci infilava dentro una busta di plastica sigillata e poi la ricopriva con del cemento e della nuova vernice.
L'unica fortuna che aveva avuto era che la famiglia venuta dopo di loro, invece, non aveva voluto cambiare i mobili perché non avevano avuto la disponibilità economica per comprarne di nuovi. E in più alla signora Tirich piacevano i mobili marroni un po' vintage.

Iris doveva sbrigarsi. Ma soprattutto doveva fare il meno rumore possibile. Però non fu abbastanza veloce.
La serratura al piano di sotto era scattata, quindi qualcuno era rientrato. Rimise apposto il pesante mobile che aveva tentato di spostare e uscì dalla finestra, saltando e atterrando come se nulla fosse.

Iniziò a correre, più veloce che poteva, ma poi si bloccò di scatto: voleva vedere chi abitava in quella casa. Tornò indietro sui suoi passi e spiò dalla finestra, un ragazzo, che anche di schiena le sembrava familiare. Ma fu nel momento in cui lui si girò che ne ebbe la conferma: Federico Tirich.

Quel ficcanaso del cavolo era il nuovo abitante della sua casa. Ora sarebbe stata veramente fottuta se lui avesse scoperto tutto. O magari lo stava già facendo. Quel giorno in cui l'aveva minacciato di farsi gli affari suoi altrimenti sarebbe finito male, lui aveva quel qualcosa nello sguardo che le aveva fatto capire che lui non si sarebbe sicuramente arreso.
Poi quando lui si diresse verso le scale e andò di sopra non poté più vedere cosa stesse facendo, così anche lei se ne andò.

Tornò a casa, dove trovò sua madre nella sua tenuta più elegante e discuteva con un suo cliente, su un argomento che ignorava. Serena era un avvocato molto prestigioso, o per lo meno lo era diventato dopo quella notte.
Iris non aveva mai capito che senso avesse avere a che fare con la legge, dopo quello che aveva commesso, ma forse conoscendo le sanzioni e le condanne, avrebbe potuto valutare tutte le possibilità per salvarsi. Sempre e comunque.
«Ciao tesoro, andata bene a scuola?» le domandò interrompendo il colloquio.
«Sì, bene.» disse soltanto la ragazza, senza nemmeno guardarla. Si diresse in cucina e prese una barretta di cioccolato dalla dispensa, per placare la fame e il nervosismo di quella giornata. Poi andò in camera sua: doveva trovare un modo per coprire quella ferita.
Provò alcuni braccialetti che aveva ricevuto per compleanni e battesimi, ma nessuno riusciva a coprirla bene.
Così le venne un'idea: poteva farsi un tatuaggio. Sì, sarebbe stata la soluzione migliore.
Il giorno dopo sarebbe andata a tatuarsi qualcosa, magari un simbolo, una lettera per cancellare quello che aveva fatto. Non sarebbe stato facile perché avrebbero fatto sicuramente storie per l'età e per il taglio sul polso, ma non le importava. Doveva coprirlo e basta.

Così per quella volta dovette mettere un cerotto e della crema per curare la ferita, ma poi avrebbe avuto il suo primo tatuaggio a coprirla.
Con questo pensiero si addormentò prima di cena, e non si svegliò nemmeno per mangiare, tanto era la stanchezza data dallo stress di quel giorno. Magari quello dopo sarebbe andato meglio e avrebbe sorriso, al posto di piangere.

Salve a tutti i miei cari lettori! Sono tornata con questo nuovo aggiornamento, spero che vi piaccia e grazie a tutti quelli che accettano di leggere la mia storia! Se avete voglia di uno scambio di letture non esitate a scrivermi in direct!❤
Alla prossima,
Alice❤

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