Il sole si mostrò con timidezza, quasi timore, accarezzando con lentezza le punte nude dei miei piedi, immerse nella pelliccia nera che, un tempo, apparteneva ad un orso.
Lo immaginavo perfettamente, Kåre, seduto sullo scranno del suo tavolo da pranzo, mentre, con uno dei tanti coltelli, scuoiava con cura le sue futura lenzuola.
Era un'immagine terribile, macabra, e certamente degna di lui.
Voltai il viso, e il mio sguardo cadde parallelamente al suo, divisi da soli pochi centimetri di distanza. Nel corso del suo sonno, Kåre era finito per voltarsi, e, per tutta la notte, mi ero sentita mortificata dal suo volto perfettamente riposato, quasi, in realtà, non avesse avuto una ragazza prigioniera nel suo letto. Invidiavo la sua calma, così come la sua forza: se l'avessi avuta io, probabilmente l'avrei già ucciso.
Seguii l'ombra del suo volto, insolitamente rigido, quasi le ossa fossero sul punto di esplodergli sotto la pelle, e riconobbi delicatezza nel modo in cui le ciglia nere accarezzavano le sue guance.
Trovavo ridicolo che i suoi capelli fossero ricci, perché, col suo essere, non concordavano affatto: Kåre era una rigida linea retta, non una divertente incurvatura castana.
Strinsi le labbra, mentre la luce del sole faceva risplendere la sua pelle marmorea, e mi voltai, puntando lo sguardo sulla tenda che faceva da separé - anche quella sembrava sporca di sangue.
Ero un pezzo di ghiaccio, e stavo morendo di fame e di sete: per fortuna, ero stata abituata al peggio.
Probabilmente, sarei morta da un momento all'altro.
«Non stai dormendo.»
La voce di Kåre fu un ago piantato nel cuore: fastidioso, doloroso e difficile da togliere.
«Non ho dormito,» ammisi, semplicemente.
Kåre sbatté le palpebre, calmo e ancora assonato: nemmeno così sembrava avere un'aria lontana mente innocente.
Non lo guardai, ben decisa a restare quanto più possibile immobile: forse, a forza di fingere di nn esistere, sarei finita per cancellarmi davvero. In quel momento, un dito mi sfiorò la guancia, scostandomi il cespuglio di capelli annodati dal volto. Kåre ne seguì il profilo, ma non mi guardò mai, restando fedele alle mie curve.
«Sei gelida,» constatò, facendo tornare le mani sotto le coperte. «Mi ricordi l'inverno danese.»
«Sei danese?» Chiesi, tremante: forse, Kåre si era svegliato di buon umore, per questo aveva così tanta voglia di conversare.
Se era felice, magari non mi avrebbe ucciso.
«Mia madre ha inseguito mio padre quando si è trasferito qui,» spiegò, con fedele freddezza. «Avevo otto anni.»
Kåre sospirò, pesante, e si tolse le coperte di dosso, mettendosi seduto: i suoi piedi nudi, sporchi di fango e terra, sfiorarono la mia coscia. «Ucciderò qualcuno, oggi.»
Lo guardai, non riuscendo a credere alle mie orecchie: lo aveva detto così, fra uno sbadiglio e un sospiro. Quindi, aveva preso la sua decisione? Così, da un bagliore nel sonno? Sicuramente, tutto questo dipendeva da suor Mary.
«Però, prima, devo farti conoscere una persona.»
Alzai un sopracciglio, sorpresa da quella insolita proposta: aveva forse intenzione di farmi socializzare prima di uccidermi? Forse aveva in mente una qualche malata tortura che non potevo conoscere? Davvero non capivo.
Il vichingo si rialzò, rapido, e andò direttamente verso il suo armadio, costringendomi a scostare lo sguardo quando iniziò a cambiarsi d'abito: forse, a lui non importava, ma io ancora tenevo a ciò che restava del mio pudore.
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An Dubh Linn
Historical FictionAnno 844; la città di Dublino sta lentamente prendendo vita, sorgendo dalle ceneri lasciate dal gruppo di vichinghi guidati dall'intransigente Thorgest. Dopo una sola manciata di anni, la conquista è ormai al termine, e Thorgest si appresta a compie...