02 • se resta, muore

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Lo straccio con cui mi avevano legato la bocca sapeva di muschio e catarro rancido, e, per più volte, quando per puro sbaglio la mia lingua finiva per sfiorarlo, mi ritrovai a contenere un conato di vomito

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Lo straccio con cui mi avevano legato la bocca sapeva di muschio e catarro rancido, e, per più volte, quando per puro sbaglio la mia lingua finiva per sfiorarlo, mi ritrovai a contenere un conato di vomito.

Thorgest mi camminava davanti, a passo sicuro e svelto, non degnandomi del minimo sguardo e, mentre un secondo vichingo biondo stringeva la corda che mi pendeva dalle mani, un terzo, di tanto in tanto, grugniva e mi spingeva con forza, incitandomi ad affrettarmi. Dietro di noi, una lunga fila di buoni motivi per non tentare la fuga.

Era un cammino che durava da ore, pressoché un'eternità, e ormai il sangue di suor Mary si era rinsecchito sulle mie vesti, iniziando ad emanare il solito odore di stantio, pungente alla base delle narici. Mi ero accorta solo dopo svariati minuti che, in realtà, non ero l'unica ad esserne ricoperta.

Un vero tripudio, una sfilata di guerrieri ricoperti da ciò che, per loro, non era altro che un segno distintivo della loro vittoria e del loro coraggio: i vichinghi vestivano il sangue dei loro nemici morti quasi fosse un vanto, un qualcosa di cui andare sistematicamente vittoriosi.

E li invidiavo, da morirci, perché io avevo cercato quel senso di liberazione, di gioia, per l'intera vita, e avevo cercato di raggiungerlo nel loro stesso modo – attraverso la morte del nemico – ma, con me, sembrava che le cose non fossero funzionate, che qualcosa fosse andato storto. Perché con me era diverso? Perché loro sorridevano, mentre io sopportavo il peso della prigionia? Probabilmente, direttamente dal suo amato paradiso, suor Mary stava ridendo di me.

«Guarda, cristiana,» mi richiamò Thorgest: «la tua nuova casa.»

«La tua nuova casa,» ripeté il vichingo alle mie spalle, dandomi una nuova spinta, quasi facendomi cadere a terra. Per fortuna, non accadde, e mi ritrovai a spiare oltre le spalle alte di Thorgest quello che sarebbe diventato il mio nuovo inferno.

Le terre del Dyflin – o, almeno, una piccola parte – sorgevano intorno ad un ampio lago di acque nere, detto dagli irlandesi black pool, e l'insediamento era un vero e proprio villaggio di cacciatori e contadini, che, nella sicurezza delle loro abitazioni di tende, assi di legno e paglia secca, si godevano i nuovi territori conquistati. Fu scontato chiedermi quante persone fossero morte per garantire loro la vita, quanti innocenti morti invano.

Io, ormai, non avrei più fatto parte di questi, non quando le mie mani portavano ancora il peso dei miei sbagli. Sarei dovuta scappare.

Quando notarono Thorgest, i suoi concittadini iniziarono ad esultare, accorrendo in gran numero per salutare il loro re: li osservai, notando le loro strane vesti, rozze e semplici come quelle a cui ero tipica nel convento, e i loro capelli intrecciati in modo insolito. Mi guardavano con sospetto, quasi disgusto, ed io non potevo che capirli: ero io l'estranea, per quanto, in realtà, fossimo ancora in quella che consideravo casa mia, la mia terra.

Quell'odio mi colpii in un modo che mi sorprese, perché, in realtà, per quanto poco sapessi dei vichinghi – e che, in maggioranza, fossero cose negative – non ero mai arrivata a provare un tale sentimento per loro. La stretta bolla di sapone in cui suor Mary mi aveva soffocato aveva impedito di farmi rendere conto che, ormai, non esisteva più l'Irlanda della mia infanzia.

An Dubh LinnDove le storie prendono vita. Scoprilo ora