Mi alzai molto tardi quella mattina e, questa, non era certo una cosa da me - abituata a riconoscere come mia sveglia la luce dell'alba. Probabilmente, ciò che era accaduto il giorno prima mi aveva colpito molto più di quanto avessi realmente recepito, perché mi resi subito conto che le mie guance erano ancora umide di lacrime, segno che dovevo aver pianto nel sonno.
Astrid si era uccisa davanti ai miei occhi, portando, con sé, anche suo figlio: ancora ricordo l'espressione di beatitudine dipinto sul suo cadavere.
Lentamente, mi rimisi seduta, scostandomi i capelli dal volto e cercando di destarmi nonostante l'estremo assopimento del mio corpo. Mi sembrava di aver dormito per anni, forse secoli, e, ad ogni movimento, sentivo le ossa gemere per il dolore.
Stavo morendo di fame.
«Nice?» Kåre era in piedi davanti al letto e si stava infilando la casacca in cuoio. «Finalmente ti sei svegliata.»
«Che cosa è successo? Che ore sono?»
Il vichingo mi si avvicinò, scoprendomi malamente e, preso un bicchiere d'acqua dal tavolo, me lo porse. «L'ora di andarcene. Muoviti.»
Lo guardai, sconvolta, ma capii perfettamente che stava facendo sul serio. Scesi dal letto, e, rapida, mi infilai le scarpe, pronta a seguire gli ordini di Kåre: in quel momento, sapevo di per certo che non potevo che fidarmi di lui.
«Màel?»
«Ho parlato con lui questa mattina,» spiegò, semplicemente. «E, come ti ho detto, dobbiamo andarcene. I miei uomini ci aspettano al confine.»
Kåre aveva mandato via i suoi uomini? Come mai? Se credeva non avessimo bisogno di protezione perché stavamo scappando?
«Nice, muoviti.»
Kåre mi coprì le spalle con una pelliccia leggera, legando con due cordini spessi i differenti lembi intorno al mio collo. Lo osservai in confusione, non riuscendo sinceramente a capirei suoi gesti: prima mi lasciava nella gabbia dei maiali ed ora si preoccupava del freddo?
«Sono pronta,» ribadii, semplicemente, lasciandomi trasportare dal vichingo fuori dalla piccola abitazione, dove riconobbi il suo cavallo nero già addobbato per il viaggio. Quando Kåre aveva avuto il tempo per fare questo? Io non mi ero resa conto di nulla.
«Riesci a salire?» Chiese, ed io mi limitai a scuotere il viso, cosa che non sembrò fargli piacere: mi reputava un'inetta.
«Limitati a stringere le briglie,» ordinò, affaticato, e, quando, sinceramente inesperta, strinsi la sottile corda di cuoio e pelle, Kåre mi avvolse i fianchi con le sue mani, issandomi di peso sopra il cavallo irrequieto. Io sormontai la sua schiena con una sola gamba, cavalcando non come un'amazzone ma un uomo, e, insolitamente, lui non si degnò di rimproverarmi: forse non gli importava? O, magari, nel mondo dei vichinghi le donne potevano cavalcare come più preferivano?
Tutto ciò che leggevo nei suoi occhi era l'estrema voglia di scappare il più lontano possibile dalla corte di Màel e, in parte, non potevo dirmi in disaccordo: detestavo quel posto, esattamente come potevo detestare il regno di Thorgest.
Tanto, non potevo dirmi la benvenuta in nessuno dei due.
Kåre cercò di seguirmi subito dopo, svelto ed esperto nei suoi movimenti, ma, giusto un secondo prima del grande balzo, una voce rauca bloccò i suoi movimenti, facendomi risalire il cuore in gola.
Era Màel, con i vestiti tutti in disordine e i capelli spettinati – quasi si fosse svegliato di tutta fretta dal suo sonno – ci guardava con un sorriso sbilenco. Un lungo coltello oscillava nella sua mano, ed ero quasi cerca che chiamasse il mio sangue.
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An Dubh Linn
Historical FictionAnno 844; la città di Dublino sta lentamente prendendo vita, sorgendo dalle ceneri lasciate dal gruppo di vichinghi guidati dall'intransigente Thorgest. Dopo una sola manciata di anni, la conquista è ormai al termine, e Thorgest si appresta a compie...