6. Ospedale

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Siria uscì, quasi in trance, sopraffatta dall'orrore di quella scena. Le immagini le si paravano davanti ogni volta che chiudeva gli occhi, i versi danteschi impressi a fuoco sulle sue retine, le lacrime le scendevano lungo le guance senza freni, senza che lei potesse fermarle. Una volta fuori la luce del sole la investì, la accecò, ma lei non ci faceva caso. Voleva solo cancellare tutto, annegare i ricordi e tutto quello che era legato a Londra, a suo padre,a Sherlock, alla polizia e agli omicidi. Voleva andarsene e dimenticare, per quanto possibile. Si fermò. Era rimasta a corto di fiato senza accorgersene minimamente, e ora non riusciva più a respirare. Le ultime cose che vide prima di svenire furono le transenne della polizia e alcuni agenti e curiosi che la guardavano indifferenti.

John e Sherlock appena uscirono la videro cadere e si precipitarono da lei, insieme a tutti coloro che avevano assistito alla scena. Sherlock bruscamente fece il vuoto attorno a John e ai barellieri, che nel frattempo erano intervenuti. La caricarono sulla barella e cominciarono ad allontanarsi, dirigendosi verso l'ambulanza.

-Solo uno dei due può salire- disse pratico un infermiere, -decidetevi o lasciamo tutti e due.-.

Sherlock, senza dire niente, si allontanò, facendo cenno a John di andare con Siria. Lui fermò il primo taxi e diede all'autista l'indirizzo dell'ospedale. John, sull'ambulanza, cercava di non mettersi a urlare, non voleva piangere come se importasse qualcosa, come se Siria potesse stare bene se lui non avesse pianto. Durante il tragitto Watson osservava la ragazza, come se fosse fragilissima e potesse essere rotta con uno sguardo. Sembrava che stesse dormendo tranquillamente se non avesse avuto il respiratore, se la sua pelle, prima vagamente abbronzata, non fosse stato pallidissima e coperta di sudori freddi. Finalmente arrivarono in ospedale, dove John trovò Sherlock che lo aspettava, silenzioso, ed entrò insieme a lui nella struttura. Si fermarono a chiedere dove fosse stata sistemata e vi si recarono in fretta, ma sempre in silenzio. Sherlock non voleva turbare il suo amico, ma d'improvviso lo aveva visto cambiato, come se da quella ragazza potesse dipendere molto della sua vita. Ma chi era in fondo Siria? Una ragazzina, italiana di certo, la pronuncia era sporcata dall'inflessione tipica degli italiani, e poi? Cos'altro sapevano veramente? Niente. Ma Holmes sentiva che c'era qualcosa che univa il suo amico e Siria, qualcosa oltre il rapporto che si era creato in quella mezza giornata.

-Sherlock. Ehi, Sherlock. Sveglia!- John, col viso tirato dalla stanchezza e l'espressione preoccupata lo riportò alla realtà bruscamente.

-Siamo arrivati.- disse l'uomo, fermandosi davanti ad una porta.

Si fermarono sui lati opposti della porta e per la prima volta si guardarono negli occhi. Sherlock rimase quasi senza fiato nel leggere tutto quel logoramento negli occhi dell'amico, ma non riuscì ad emettere altro che un sussurro strozzato:- ... John...-. Accolse Watson nelle sue braccia, in modo un po' impacciato: era parecchio che non abbracciava qualcuno, se non per rubare qualcosa, e ora si sentiva goffo e rigido. John piangeva silenziosamente, aggrappandosi a Holmes come se fosse la sua ultima chance per rimanere in sé. Sherlock cercò di fargli sentire che era lì per lui, gli si strinse addosso, e, quasi per caso, una lacrima gli scivolò giù, ma fece presto ad asciugarla, con il dorso della mano.

-John andrà tutto bene, non ti preoccupare... John, guardami, fidati di me, andrà tutto bene-.

Quelle parole gli suonavano inadatte, ma si sforzò di pronunciarle con un tono confortante, mentre faceva in modo che John lo guardasse e trovasse un'oasi di pace e tranquillità negli occhi dell'amico. I due si erano staccati dall'abbraccio ed erano quasi fronte contro fronte, Sherlock lievemente piegato sulle ginocchia, respirava pesantemente, ma cercava di infondere calma e fermezza, mentre John lentamente si tranquillizzava, insieme al ritmo del suo respiro. Sherlock aveva preso il viso di Watson tra le mani, e in quel momento, paradossalmente, tutto gli sembrò perfetto: loro due, uniti contro tutto e tutti, così vicini, così a contatto come non lo erano mai stati, le sue mani sul viso di John, John che ancora si teneva alla sua maglietta. La vicinanza  gli permetteva di studiare in tutti i dettagli il volto di Watson, gli occhi, castani come potevano essere quelli di milioni di persone ma che lui avrebbe riconosciuto tra migliaia, il colore della pelle, che a volte gli aveva invidiato, a discapito del suo candido pallore inglese e le labbra, ora dischiuse, che aveva visto sorridere così tante volte. I suoi occhi vedevano solo John, il suo cervello era avvolto in un torpore che trovò bellissimo e sì avvicinò a John, come non aveva mai fatto, come non avrebbe potuto immaginare...

Un colpo di tosse lì riportò nella dimensione terrestre.

-Scusate... Chi è il padre della ragazza?- un medico sulla quarantina, alto, pallido e con i capelli neri li guardava, attendendo la risposta, sorvolando con fare professionale sul momento in cui era intervenuto.

Una figlia inaspettataDove le storie prendono vita. Scoprilo ora