Capitolo 46. Lunedì

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Era un caldo lunedì mattina di Aprile e mai come quel giorno sentivo il camice bianco pesarmi terribilmente addosso.

Dopo un'autopsia durata più tre ore, ero finalmente riuscita a ritagliarmi dieci minuti di pausa per potermi concedere un cappuccino alle macchinette del terzo piano.

Nonostante mio padre mi avesse coinvolta nell'ambito medico fin da quando ne avevo memoria, facevo ancora fatica a considerare il corpo ormai privo di vita sul tavolo autoptico come un semplice cadavere.

Oltre quegli occhi ormai vitrei e spenti c'era molto di più, c'era un'intera storia che necessitava di essere conosciuta e ricordata.

In due anni di specializzazione, avevo visto uomini e donne di tutte le età e di tutte le etnie.

La notte continuavo ad avere incubi sulle storie di centinaia di persone che mi ero ritrovata di fronte quando ormai era troppo tardi e non c'era più niente che potevo fare, a parte dargli giustizia.

Sei troppo empatica.

Mi ero sentita ripetere quella frase fin dal primo giorno che avevo messo piede all'interno dell'Istituto di Medicina Legale, eppure all'inizio non capivo quale fosse il problema.

Non consideravo affatto l'empatia come un problema che potesse ostacolare la mia carriera.

Mesi dopo capii che non era la mia carriera ad essere messa a rischio, ma la mia sanità mentale.

La prima volta che mi ritrovai ad assistere all'autopsia di una bambina di sei anni, morta dopo essere stata violentata ripetutamente da due uomini adulti, che si scoprirono essere stati il padre e lo zio, non riuscii più a mangiare e a dormire per dieci giorni.

Qualsiasi cosa provassi a fare per non pensare a quella bambina, al suo volto candido contornato da morbidi ricci color miele e al suo corpo ricoperto da ematomi, segni di morsi e ferite aperte, puntualmente falliva, e la mia mente ritornava a lei e alla sua vita spezzata troppo in fretta.

A venticinque anni mi ero ritrovata urlare nel sonno quando, nel dormiveglia, mi si era presentato davanti, per l'ennesima volta, tutto ciò che quella bambina aveva dovuto subire.

Riaperti gli occhi mi accorsi che il mio volto era stravolto dalle lacrime e trovai mia madre seduta in penombra sul bordo del letto, una sua mano stringeva la mia mentre l'altra mi accarezzava il volto con apprensione.

Senza dire una parola si stese al mio fianco e scoppiai a piangere contro il suo petto.

Mentre mi stringeva a sè, cullata dalle sue braccia, tornai bambina e capii che, forse, sarebbe stata la mia stessa empatia a distruggermi.


"Giornataccia?"

Una voce di fronte a me mi costrinse a sollevare lo sguardo e a sbattere ripetutamente le palpebre per mettere a fuoco la figura che mi si presentava davanti.

Ellioth mi guardava con attenzione, lanciò uno sguardo al cappuccino fumante che stringevo tra le mani e si voltò verso la macchinetta per prendere a sua volta un caffè.

"Un po' " ammisi girando la spatola nel cappuccino affinchè lo zucchero si sciogliesse completamente.

Ero stanca di fuggire da lui.

Era impossibile evitarlo, le nostre palazzine erano comunicanti e non volevo più incamminarmi per i corridoi dell'edificio con la costante paura di doverlo incontrare.

"A che ora stacchi?"

Lo guardai sospettosa e lui prontamente alzò le mani in segno di resa.

"E' solamente per fare conversazione, giuro che non ti voglio stalkerare, Elis" abbozzò un sorriso imbarazzato.

Countdown || Noah CentineoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora