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Nicola sta finendo di recitare una poesia di Pascoli, quando la campanella dell'intervallo lo interrompe: Andrea si avvicina a me con passo deciso, mi fa alzare e mi prende in braccio contro la mia volontà, cingendomi i fianchi e portandomi di peso in un angolo dell'aula. Vorrei scalciarlo via ma non ne ho la forza, mi lamento con voce troppo debole mugolo scuse fragili mentre lui inizia a baciarmi leggero.

«Ti piacciono gli uomini grandi, eh? Fammi vedere» mi dice tra un bacio e l'altro: sulle labbra, sulle guance, sul collo, addirittura si spinge fino allo sterno, senza neanche spogliarmi.

«La smetta...» borbotto.

«Dai, nin...»

Anche se controvoglia, cedo e ricambio i suoi baci.

«Lo vedi che ti piacciono gli uomini grandi?»

Ha le labbra morbide, non mi sta propinando uno di quei fastidiosi baci tutti lingua da lumacone. Della lingua, anzi, non c'è nemmeno traccia. È tranquillo, accomodante, il mio caro, vecchio professore dell'angolo della cattedra. Mi è sempre piaciuto, ho fatto di tutto per lui, perché non dovrei cedere?

***

Non ho messo piede fuori dall'albergo stasera.

Ho farfugliato una scusa a Ester e Clarissa e mi sono infilata a letto con un gran mal di testa, gli occhi stravolti dal gran pianto e le viscere sottosopra, senza neanche infilarmi il pigiama ma levandomi giusto i jeans. Clarissa mi ha messo una mano sulla fronte in cerca di febbre, borbottato qualcosa contro la paninoteca in cui abbiamo mangiato a pranzo e azzardato un fuoco e fila di domande a cui ho risposto a grugniti, mentre Ester le consigliava di tacere e smettere di pungolarmi mentre finiva di vestirsi, salvo comunque guardarmi con occhi apprensivi e chiedendole se non fosse il caso di chiamare la Orsi.

«Sono andata da Rodari prima» ho biascicato, «ho due righe di febbre, ho bisogno di dormire.»

Alla fine, entrambe mi hanno salutata con aria mogia, dispiacendosi della mia assenza e raccomandandomi di riposarmi e riprendermi, mentre io sprofondavo in un sonno cupo e privo di sogni fino ad ora.

Arriva qualche rumore dal corridoio, attutito da qualche invito a fare silenzio: riconosco le voci di Elia, Arianna e Rossella, che ridono in modo più o meno sguaiato e commentano la serata, mentre un fastidio violento, come un colpo di stiletto, mi coglie in mezzo allo sterno.

Avrei dovuto essere insieme a loro, brilla e felice, non a piangere per un professore stronzo.

Hanno infilato la chiave nella toppa.

Non ho voglia di mostrarmi sveglia, di chiacchierare o di inventare giustificazioni: mi giro verso il muro e serro gli occhi, sperando che le mie migliori amiche vadano a letto presto.

La luce del corridoio invade per un attimo la stanza, poi viene sostituita dalla torcia del cellulare.

«Sta ancora dormendo?» si informa Ester, puntando la luce contro la mia schiena.

«Povera, doveva stare proprio male.»

Ester ride, beffarda. Che ha da ridere?

«Sì, certo, come no. Sarà stata finora dal professorino a fargli le coccole.»

«Dai Ester, non fare la stronza!»

«Come se non lo pensassi anche tu. Te la immagini? "Professore, non esco certo con quelle rozze delle mie amichette, potremmo parlare di Leopardi".»

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