Rabbia (Pov Jacob)

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Jacob

«Perché?» urlai, cercando di sfogare tutta la rabbia che avevo in corpo.
Tremavo, ma non volevo trasformarmi, non volevo sentire i miei fratelli, e cercavo di controllarmi. Le mie grida avevano comunque richiamato gli altri del branco. Mi trovai di fianco Sam. Che strano, non l'avevo sentito arrivare, e mi ero accorto di lui solo quando mi aveva poggiato la mano sulla spalla.
Era un ottimo capobranco, ma in quel momento volevo restare solo. Gli ringhiai contro.
«Jacob, sta calmo» mi disse, e se fosse stato trasformato la sua voce sarebbe risuonata come un ordine. Il doppio timbro dell'alfa. Non lo usava quasi mai, e, ora che ci pensavo, con me meno che con gli altri. Forse perché gli sembrava un abuso. Ma non lo era. Io non volevo il suo ruolo, non l'avevo mai voluto - anche se mi sarebbe spettato per diritto di nascita - e mai lo avrei voluto.
«Mi dice che mi ama e poi se ne scappa in Italia a salvare quel... quel... quel mostro!» non ce la faccio. Mi viene da piangere. Sono grosso come una casa e piango per queste stronzate. Per forza che poi Bella se ne va dal succhiasangue. Che ci sta a fare con un piagnucolone come me?
«Vi siete baciati?» mi chiede con fare indagatore.
«No...» rispondo titubante. Cazzo. Alto quasi due metri, con due spalle larghissime, e parlando della mia vita sentimentale balbetto come un cretino. O meglio, come un qualsiasi ragazzo di sedici anni.
Ma che mi ha fatto quella strega? Che poi magari fosse una strega, non sarebbe una così grande prelibatezza per il palato delle sanguisughe e non avrebbe mai conosciuto i Cullen. Una vita senza i Cullen. Sai che figata! Io sarei cresciuto in maniera normale e lei... lei non avrebbe sofferto così tanto a causa loro.
Mi sentivo tradito. Era bastato uno schiocco di dita, o meglio una visione, della succhiasangue minuscola, e lei era corsa da lui.
E diceva di amarmi.
Ma non mi illudevo. O almeno cercavo di non farlo. Non mi avrebbe mai amato come amava lui. Perché, per quanto me lo avesse negato, per quanto con tutte le sue forze cercasse di nasconderlo a me e a se stessa, lei lo amava ancora. E questo non sarebbe mai cambiato. Io potevo solo cercare di renderla felice, se me l'avesse permesso.
«Perché?» ripetei ostinatamente e con rabbia, scagliando un pugno contro il tronco su cui ero appoggiato. Una quercia di trecento anni non è l'albero migliore con cui scontrarsi se non vuoi che la tua mano si riduca in poltiglia. Se avevo sperato anche solo di scuoterla rimanevo lì frustrato a guardare la mia mano. Tre dita rotte. Che sarebbero guarite presto. Guarivo presto. Uno dei pochi vantaggi della mia nuova esistenza.
«Jake, cercare di abbattere la foresta non serve a niente. Sai quando tornerà?» mi chiese Sam, che ovviamente era rimasto lì ad osservare.
«Quando lui non avrà più bisogno di lei, immagino» risposi con sarcasmo.
Lui ha bisogno di me. Ed io, io non avevo bisogno di lei? Lei che era diventata la mia vita, la mia ragione di esistere, il sole che rischiarava le mie giornate, tristi da quando mi ero trasformato? Mi chiedevo se fosse questo che si provava con l'imprinting. Ma mi risposi di no. Quella era più una sorta di... adorazione... che ti spingeva a dare alla tua compagna qualsiasi cosa di cui avesse bisogno.
Se non avessi saputo che lei mi avrebbe odiato se le avessi chiesto di non andare, io l'avrei fatto. Ma non ero così egoista. Avevo messo i suoi bisogni davanti ai miei. Ero ancora così sicuro che non fosse un imprinting? Sì, lo ero. Guardando gli altri mi rendevo conto che non poteva essere, che per il suo bene io avrei soffocato il mio, ma felice di farlo, perché sapevo di rendere felice lei. Non era un mettere i suoi bisogni davanti ai miei, era più un far diventare miei i suoi bisogni. Ed io certamente non avevo bisogno delle sanguisughe. Anzi, ne avrei fatto volentieri a meno. No, decisamente non era un imprinting. E se... se fossi stato il primo lupo sfigato della storia del branco, destinato ad un imprinting a senso unico? Ma...
«Sam - dissi ad alta voce - cosa si prova quando si subisce l'imprinting?»
«E' difficile da spiegare a parole - mi rispose il mio Alfa - Hai presente la forza che ti tiene con i piedi attaccati a terra?»
«La forza di gravità?» domandai io stupito.
«Proprio la forza di gravità. Beh, nel momento in cui l'oggetto del tuo imprinting entra nella tua orbita e lo fissi negli occhi la forza di gravità non esiste più, perché la gravità è lei. Non riesci a starle lontano e non ti importa più di nient'altro, perché sai che senza lei la tua vita non avrebbe più un senso» concluse con aria sognante, sicuramente pensando alla sua Emily.
No, decisamente non era quello che provavo io per Bella.
Ma la amavo e, almeno a quanto mi aveva detto prima di partire, lei amava me. Perché ero così insicuro allora? Perché lei ama anche lui. Mi risposi scuotendo la testa. Gliel'avevo letto negli occhi, e l'avevo capito anche se non lo volevo capire. Ma volevo darle fiducia e confidare nel fatto che sarebbe tornata da me. Lo sapevo perfettamente che se non fosse successo avrei soltanto alimentato le mie illusioni e ci sarei stato ancora più male. Ma non avrei commesso l'errore di non dare a noi come coppia neanche una possibilità. Non quando l'avevo appena intravista dietro una porta socchiusa.
Sentii qualcosa di bagnato scendere sulla mia faccia. Non sentivo freddo, d'altronde non lo sentivo quasi mai. Pensai che avesse iniziato a piovere, ma guardando il cielo capii che non era così. Erano lacrime. Maledettissime, fottutissime lacrime.
Chissà quando avevo iniziato a piangere. Era stato prima o dopo che avevo chiesto a Sam dell'imprinting? Era stato prima o dopo del pugno all'albero? Ma di una cosa ero sicuro. Era stato sicuramente dopo aver ripensato alla frase di Bella.
«Sam - dissi - ho bisogno di stare un po' da solo».
Lo vidi annuire e andarsene.
Mi sedetti con le spalle contro l'albero che avevo colpito. E lì rimasi per quasi tutto il giorno.
«Jake, ma ancora sei qui?» mi apostrofò una voce dolce.
Non mi ero neanche accorto che fosse diventato buio, e scattai a quell'arrivo inatteso.
«Emily, ma...» non sapevo cosa dire. Cosa ci faceva Emily lì?
«Cosa ci faccio qui?» mi chiese, quasi leggendomi nel pensiero. Ma il suo era amore materno. Dalla trasformazione aveva adottato noi "fratelli" di Sam. E ci trattava come figli veri, nonostante avesse solo pochi anni più di noi.
Io ero in piedi. E lei si sedette esattamente dove ero io fino a pochi istanti prima, toccando la terra come ad invitarmi a sedere. Raccolsi l'invito, e tornai a terra.
«Jake, hai voglia di parlare?» mi chiese gentilmente.
Sì, avevo voglia di parlare. Con qualcuno che potesse ascoltarmi senza giudicare, mio padre anche se... se fosse stata viva sarebbe stata più indicata mia madre. Ed Emily era quanto di più simile ad una madre riuscissi a pensare in quel momento. E soprattutto non aveva la mente in comune con il branco. Anche se ci avesse pensato non sarei stato costretto a vedere i suoi pensieri continuamente. Anche se le avessi fatto pena non avrei dovuto sopportare le sue sensazioni.
«Sì, ne ho voglia».
Ed iniziai a raccontarle le mie sventure d'amore. Ero così inesperto, me ne rendevo conto da solo, quando parlando di Bella a qualcun altro ripensavo ai miei atteggiamenti, ma mai una volta lei accennò ad un sorriso. Mi ascoltava seria, ogni tanto annuiva o chiudeva gli occhi, ma era solo per un attimo, forse per assaporare meglio il racconto, o forse per immaginare bene la situazione. Non era certamente facile mettersi nei miei panni. Oppure lo era, ma non volevo che lo fosse. Volevo che fosse una situazione solo mia. Che nessuno potesse dirmi: "ci sono passato anche io, prima o poi ti passa". E lei mai una volta accennò a quelle parole.
«E così è partita per l'Italia» terminai di raccontare.
Lei mi guardò fissa negli occhi, quegli occhi che probabilmente dovevano essere rossi come il fuoco per tutte le lacrime che avevano versato nel pomeriggio. Poi fece un gesto che mai mi sarei atteso da lei. Lei, così affettuosa, ma allo stesso tempo così distante, mi abbracciò, cullandomi. Se non fossi stato così preso a piangermi addosso, probabilmente avrei riso per quella situazione. Lei, così piccola a confronto con me, che cercava di consolarmi. Aveva proprio un atteggiamento materno nei confronti di noi lupi del branco. Anche se mai si era sbilanciata a tali dimostrazioni di affetto. Forse lo faceva per rispetto a Sam. O forse lo faceva perché noi stessi eravamo un po' inibiti nei suoi confronti. Insomma era sempre la donna del capo!
Rimanemmo così per qualche minuto, poi si sciolse dall'abbraccio e si alzò in piedi.
«Sei pronto a tornare?» mi chiese.
Non ci avevo ancora pensato, ma... strano, dopo aver parlato con lei mi sentivo... sereno. Triste, certamente, non stavo attraversando una di quelle cose su cui passi sopra facilmente, ma ero sereno.
Non tremavo più di rabbia.
Mi aveva fatto bene parlarne. Mi alzai, pronto a tornare al villaggio.
«Solo una cosa - mi disse, prima che ci avviassimo - quando hai voglia di piangere per lei, pensa a Seth, che ha appena perduto suo padre, ha solo quindici anni e sta per entrare a far parte del branco».
«Anche Seth...» risposi interdetto e la fissai.
«Me l'ha detto oggi pomeriggio Sam. L'avresti saputo prima di me se ti fossi trasformato! Ma non ti voglio rimproverare per questo. Avevi bisogno di startene per conto tuo e ti capisco. Solo ti chiedo di tornare ad occuparti dei tuoi doveri. Quando Sam ti ha scelto come Beta non l'ha fatto solo per una questione di genetica. Paul, Jared ed Embry sono nel branco da più tempo di te, eppure hanno sempre ascoltato quello che dicevi come se fossi un "fratello" più anziano».
«Emily, io non voglio più deludere né te, né Sam... né qualcun altro. Questa situazione non deve interferire con il mio ruolo. Anche se ci penserò spesso... e arriverò forse ad infastidire qualcuno» sorrisi al pensiero.
«Se sei deciso, andiamo!» mi rispose semplicemente.
E ci avviammo insieme verso il villaggio.

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