Emozioni (Pov Renesmee)

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Renesmee

«Renesmee, per favore, esci e vieni a mangiare qualcosa. Tuo padre sta impazzendo!»
Che impazzisca, allora! Pensai. Consapevole del fatto che lei non avrebbe sentito che stavo rispondendo, ma lui sì.
Mi girai dall'altra parte del letto. Quel lato che, dopo due settimane, conservava ancora il Suo odore.
«Renesmee, tesoro, è più di una settimana che non metti piede fuori da questa stanza!» continuò mia madre.
No, non è più di una settimana. Sono sei giorni, ventidue ore, sedici minuti e cinquantadue secondi. Cinquantatre. Cinquantaquattro.
«Renesmee, tuo padre non sapeva che ancora non gli avessi detto niente. Non puoi incolparlo!»
Ma tu lo giustifichi sempre, mamma? L'hai giustificato quando se ne è andato. Lo sei andata a salvare nonostante ti si fosse presentata una vita con Jacob. L'hai sposato dopo che ti aveva portata via dai tuoi figli. E lo giustifichi ancora adesso che mi ha rubato i miei sogni?
Questo le avrei detto, se non fosse significato parlarle. E io non volevo parlare. Né a lei, né tantomeno a lui. Ma con lui era inevitabile. Ascoltava ogni mio singolo pensiero. Era per questo che da una settimana nella mia testa scorreva sempre lo stesso film. Ogni momento che avevo trascorso con Jacob.

Il nostro primo incontro.
Il battito accelerato del mio cuore nel sentire il rumore dei passi di un lupo nel sottobosco.
La paura di essere assalita.
La gioia che avevo provato nel riconoscere quegli occhi. Tanto profondi che permettevano di leggergli l'anima.
La sensazione provata la prima volta che lo avevo accarezzato e la felicità nel capire che lui non si sarebbe ritratto.
La frustrazione nel seguire il suo sguardo sulla lapide di mia madre e nel sentirlo irrigidirsi.
L'odio che avevo provato verso di lei nel momento in cui lui mi aveva lasciata sola.

Quella volta a scuola.
La vergogna per essermi messa una gonna così corta e le maledizioni lanciate a zia Alice per avermi mandata a Forks senza i miei vestiti.
«Ho lasciato un armadio pieno, tesoro!» mi aveva detto.
Stupida io che non avevo tenuto conto del fatto che lei fosse più bassa di me di ben venti centimetri. La rabbia verso Daniel per avermi fatto prendere due note. Rabbia che si era tramutata poi in gratitudine.
La noia nell'entrare nell'ufficio di Seth per farmele firmare. La sensazione di fuoco nelle vene sentendo il Suo sguardo sul mio corpo. L'eccitazione nel vedere le sue pupille dilatarsi e la sua erezione aumentare di minuto in minuto. L'idea che se non me ne fossi andata presto da quell'ufficio avrebbe fatto qualcosa di estremamente sconveniente.
Che non mi sarebbe dispiaciuta affatto.
La sua titubanza nel prendermi a lavorare nell'officina.

La mattinata in officina.
Mi ero divertita, seguendo i battibecchi di Embry e Jake. Lusingata per lo sguardo geloso che quest'ultimo aveva rivolto al primo. Nuovamente eccitata per i suoi occhi sulle mie gambe.
Irritata per come quell'oca di Jessica Stanley lo aveva guardato. Ero stata felice di poter dimostrare che lui era di mia proprietà e basta. Che non ero disposta a cederlo a nessun'altra. Che il suo cuore sarebbe stato mio per sempre.

Mi sfuggì un singhiozzo.
Papà, rovini sempre tutto! Urlai nella mia testa. Le lacrime avevano ricominciato a scivolare sulle mie guance. Continuai a pensare a Jacob. Ne avevo bisogno, anche se faceva tanto male.

Il bacio infuocato che ci eravamo scambiati nella rimessa.
La voglia di fare l'amore con lui lì, sul cofano di quel pick up che avevo appena riparato. La sua lingua intrecciata alla mia, calda e ruvida, che mi riempiva la bocca del suo sapore. Le sue mani sulla mia pelle. Sotto la mia canottiera, mentre, avide di me, scoprivano che non indossavo il reggiseno. Le mie mani tra i suoi capelli, a trattenerlo vicino a me, come se temessi che potesse andarsene da un momento all'altro. La frustrazione nel sentirlo staccarsi da me. La vergogna nel rendermi conto che Seth ci stava guardando.
La sensazione di casa che avevo provato vedendo i miei fratelli per la prima volta. Sentirli parlare. Giocare con loro. Era stato solo per cinque minuti, ma avevo provato un'emozione fortissima. Il richiamo del sangue.
E non quello classico per un vampiro. Ma quello che ti lega indissolubilmente alla tua famiglia.

L'insonnia notturna.
Il pensiero di lui vicino a me. La sua bocca sulla mia. Le sue mani su di me. La rabbia verso i miei genitori per averlo costretto alle sofferenze peggiori. La gioia nello scoprire che anche lui, come me, non riusciva a dormire. Che anche lui aveva bisogno di me come io di lui. Che era venuto lì, a casa mia, per vedere me. La delusione, quando si era allontanato. La sorpresa, quando era entrato in casa dalla porta sul retro e aveva spento la luce. L'eccitazione di sentirlo vicino a me, sfiorare l'unico indumento che indossavo e riempirmi la testa di lui.
Di nuovo la voglia di fare l'amore con lui. La provocazione, che avevo messo in atto con maldestra sensualità. La felicità, quando avevo visto che mi stava seguendo. La totale obnubilazione del mio pensiero e dei miei sensi, quando aveva violentemente posato le sue labbra sulle mie intrecciando la sua lingua alla mia. L'appagamento in quella sensazione di perfetta completezza, quando era entrato dentro di me, dolce e allo stesso tempo passionale.
La sensazione che il cuore potesse scoppiarmi da un momento all'altro quando mi aveva detto quelle due parole che sognavo da una vita.
«Ti amo»
La serenità nell'addormentarmi, ancora nuda, tra le sue braccia. La preoccupazione, al mio risveglio, nel sentirlo agitarsi nel sonno. La paura che potesse essere ancora per lei. La rabbia, quando aprendo gli occhi, mi aveva chiesto "chi sei?". Il divertimento e il rasserenarmi quando si era reso conto di quello che aveva detto e aveva tentato di giustificarsi. Il mio desiderio, anzi il mio bisogno, di dirgli la verità. Una verità che, ne ero sicura, ci avrebbe allontanati, quando avesse saputo tutto.

Quel tutto di cui era venuto a conoscenza nel peggior modo possibile. Dalla persona più sbagliata della Terra.
Quanto ci hai goduto, eh, papà? Gli dissi con rabbia. Di nuovo le lacrime si affacciarono agli angoli dei miei occhi. Di nuovo, le lasciai scorrere libere.
Mi addormentai mentre piangevo.

Ne ero sicura, perché quando riaprii gli occhi, la sveglia mi diceva che erano passati sette giorni, ventidue minuti e trentacinque secondi dall'ultima volta in cui avevo visto il mio Jacob. Dall'ultima volta, quella in cui mi aveva detto, con lo sguardo ferito e la voce di ghiaccio, "Non ti voglio più vedere!". Lacrime abbondanti ricominciarono a scorrere sul mio viso. Singhiozzavo disperata, e cercavo di soffocare quei singhiozzi nel cuscino, perché quei due non mi sentissero. Dopo qualche minuto, tornata a respirare normalmente, li sentii parlare.
Avevo dei buoni sensi.
Erano al piano di sotto, ma li sentivo lo stesso.
«Non ce la faccio, Bella. Non ce la faccio a sentire i suoi pensieri e a sapere che sta così per colpa mia! Nostra figlia mi odia e ne ha tutto il diritto. Mi aveva chiesto di allontanarmi, aveva capito che ero lì e mi aveva pregato di rimanere in silenzio. Ma sentire i pensieri di lui su di lei, e quel tono che ha usato quando mi ha parlato. Quel suo modo di farle scudo da me, suo padre. Non ci ho visto più. Non ho pensato. Ed ora lei sta così per colpa mia. Sono un padre inadeguato, incapace, indegno»
Non lo sentii più parlare. Segno che mia madre aveva abbassato il suo scudo e gli stava mostrando i suoi pensieri.
«Non puoi andare da lui. Ti ucciderà con le sue mani!»
«No, non lo farà. Mi fido di Jacob. Non mi ucciderà. Mi tratterà male, e me lo merito. Ma non mi ucciderà. Tu nel frattempo chiama Alice e Jasper. Chiedi loro di venire qui. Forse riusciranno a sbloccare Renesmee».

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