Promesse (Pov Leah/Jacob)

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Leah

«Da quanto?» le chiesi, sorpresa ed incredula.
«Due giorni»
«E nessuno se ne è accorto?» Scosse la testa.
Potevo solo immaginare cosa fosse significato tenerlo nascosto a Jake, Seth e Ethan, che erano gli uomini della sua vita, e che le stavano sempre appiccicati. Ma in fondo erano uomini. Anche se... una donna in casa in quel momento c'era. Nessie non se ne era minimamente accorta?
Doveva essersi spaventata a morte la mia piccolina, che poi piccolina non lo era più neanche tanto. Era ormai una donna, anche se ancora lontana dal pensare e dall'agire come tale. Tendevo sempre a considerarla come la figlia che non avevo mai avuto, e che non avrei mai potuto avere se avessi continuato a trasformarmi. Amavo Embry, con tutto il cuore, ma certe volte mi sembrava che la nostra vita non fosse completa. E il non essere in grado di dargli un figlio suo, mi allontanava da lui ogni giorno di più, per la paura che un giorno avrebbe potuto odiarmi. Ed ogni volta che lui entrava nel discorso "matrimonio", finivamo sempre per litigare, ed ultimamente accadeva sempre più spesso. Come la sera prima, che era finita come ogni volta in cui litigavamo.
«Tesoro, ti sei spaventata molto?» dissi a Sarah, riscuotendomi dai miei pensieri, ed abbracciandola stretta, per impedirmi di precipitare in pensieri non troppo felici, che cercavo di evitare da anni, per finirci puntualmente ogni volta che Emily o Rachel parlavano dei loro bambini, o ogni volta che Jacob mi parlava di Sarah ed Ethan. Figli. Che io non avrei mai avuto.
Se dovevo essere sincera, una piccolissima parte di me, per un brevissimo istante, aveva esultato quando Sarah si era trasformata. Un'altra persona a condividere la mia stessa condanna. Ed egoisticamente ne ero felice. Ma dovevo sapere che non sarebbe durato. Dovevo sapere che l'imprinting che mio fratello aveva avuto per lei sarebbe stato la sua salvezza. L'imprinting era fatto per dare vita a lupi più forti. E quella che ero, quella che all'egoismo non cedeva mai, si rimproverava per averla anche solo pensata quella cosa.
«Non so. Non è che abbia avuto tanto tempo per pensarci... dovevo assicurarmi che nessuno lo scoprisse e che nessuno si preoccupasse» mi rispose, ma, mentre lo faceva, sentii il mio collo inumidirsi. Delle sue lacrime. Lacrime che potevo attribuire alla paura che aveva provato, sicuramente, ma anche al sollievo dell'aver finalmente condiviso quel segreto con qualcuno. Ero felice che in me vedesse una persona con cui potersi aprire, con cui essere sincera, dopo tutto quel tenersi tutto dentro.
«Zia... è una cosa bella o una cosa brutta?»
«Principessa, è una cosa meravigliosa!» le risposi, puntando le mani sulle sue spalle e allontanandola da me per guardarla negli occhi. Quegli occhi neri, tanto simili a quelli del suo papà. Quei profondissimi e meravigliosi occhi neri, luccicanti per le lacrime.
«Davvero?» mi chiese, tirando su con il naso.
Annuii.
«Sì, e conosco una persona che sarà veramente felice di saperlo»
«Non lo devi dire a nessuno!» urlò lei, indignandosi.
«Io non dirò nulla a nessuno, non l'avrei fatto neanche se non l'avessi puntualizzato. Ma tu dovrai parlare con qualcuno. Perché lui non terrà la bocca chiusa per molto» dissi, rimproverando con lo sguardo Embry, che aveva origliato tutta la nostra conversazione e che si era affacciato sulla porta della cucina solo in quel momento, vestito con un paio di jeans sdrucidi tagliati al ginocchio e macchiati di grasso e una maglietta nera a maniche corte con la stampa. La solita tenuta da officina, anche se quel giorno non doveva andare.
Sarah seguì il mio sguardo e intercettò la figura di suo zio. La sua mano passò immediatamente sotto gli occhi, ad asciugare le lacrime che ancora scendevano sulle sue guance.
«Ma oggi non era il tuo giorno libero, zio?» gli chiese, guardandolo storto e tirando nuovamente su con il naso.
«E tu non sei un po' troppo cresciuta per comportarti come un maschiaccio?» la rimproverò lui, porgendole un fazzoletto preso chissà dove. Come a dimostrare che aveva ragione, Sarah gli mostrò la lingua in risposta.
«Sarah!» lo rimproverai, scoppiando a ridere.
«Visto che ho ragione?» chiese Embry.
«Sì, ma starai zitto lo stesso»
«Tesoro, ma è una cosa meravigliosa - disse, avvicinandosi a lei, chinandosi di fronte alle sue ginocchia per fissarla negli occhi che aveva abbassato, ed accarezzandole la guancia con il dorso di un dito, raccogliendo una lacrima che ancora indugiava sulla guancia, asciugandola - Non c'è nulla di cui vergognarsi, è una cosa così normale che sembra strana in questo posto, ma è solo perché non ci accadono cose normali da troppo tempo» lei lo fissò stranita, quasi sul punto di insultarlo, e lui dovette capirlo.
«Scusa, Sarah. Non sono bravo con le parole, lo sai, ma quello che volevo dire è che con tutto quello che è successo negli ultimi mesi... sai... Nessie, tua madre ancora in vita, la trasformazione tua e di Ethan... forse è bene che vi succeda qualcosa che possa essere classificato nella "realtà" anche per tuo nonno Charlie. E poi... adesso non puoi ancora capirlo, ma in futuro sarai felice di quello che ti sta capitando, tesoro»
Mentre le parlava, osservavo il suo modo di muoversi, di avvicinarsi a lei, ma anche di mantenere le distanze. Sarebbe stato un ottimo padre, se solo... Mi sfuggì un singhiozzo dalle labbra, e solo in quel momento mi resi conto di stare piangendo. Embry non doveva vedermi. Non doveva assolutamente vedermi piangere. Non per quel motivo. Non volevo che soffrisse, non doveva entrare nella mia sofferenza.
Fuggii. Mi chiusi dentro la mia stanza e mi buttai sul letto, ancora sfatto, che profumava di me, di Embry e di noi insieme. Strinsi il suo cuscino, maledicendomi per aver anche solo pensato di poter essere felice con lui. Io non potevo essere felice. Non così. Non se lui doveva fare quella rinuncia. Non quando mi ero appena resa conto di quello a cui l'avrei fatto rinunciare.
Lentamente, mi rialzai, aprii l'armadio, e tirai fuori un borsone, iniziando a riempirlo alla rinfusa con i miei vestiti. Sarei tornata da mia madre, sarei fuggita via, di nuovo, ma non potevo costringerlo a quella rinuncia. Non potevo e non dovevo farlo.
«Leah... Leah, che fai?» mi chiese Embry, entrando nella stanza e vedendomi preparare il borsone.
«Non è chiaro? Torno da mia madre. Prenditi tutto il tempo che vuoi per svuotare la casa dalle tue cose, io partirò per un po'» gli dissi, con il cuore che si frantumava come un bicchiere caduto a terra. Mi prese per un braccio, saldamente, e mi fece voltare. Un'espressione dura in volto.
«Dici sul serio? Mi vuoi lasciare?» gridò.
Annuii, incapace di parlare, per evitare di scoppiare in lacrime.
«Mi sai spiegare almeno il motivo?»
«Credo di avertelo detto almeno un milione di volte negli ultimi tre mesi»
«Ed io credevo che avessi capito che non lo voglio un figlio se non ho te!»
«Dici così adesso, ma tra qualche anno...»
«Tra qualche anno smetteremo di trasformarci ed allora avremo un bambino. E se non dovessimo riuscirci ne adotteremo uno» mi disse, lasciando il mio braccio e prendendo il mio viso tra le mani, ed attirandomi verso di lui. Sebbene entrambi fossimo dei lupi lui rimaneva più alto di me di almeno dieci centimetri. Posò le sue labbra sulle mie, dolcemente, per dare maggior forza alle sue parole. Poi posò la fronte sulla mia, guardandomi negli occhi, mentre le sue mani scendevano sulle mie spalle, coperte solo dalla vestaglia.
«Leah, io ti amo. Probabilmente prima o poi ti stuferai di me, dei miei comportamenti infantili e della mia ninfomania - sorrisi - e quel giorno avrai un motivo valido per lasciarmi. Ma questo non lo è. Non devi fare la martire e sacrificarti ogni volta che pensi che qualcuno possa soffrire. Non è questo quello che voglio. Non voglio che tu soffra per qualcosa che non esiste. Io voglio te, e te soltanto, e voglio che tu sia felice. Non posso esserlo neanche io, altrimenti»
Le sue mani salirono sul collo, spingendo sulla nuca, per attirare le mie labbra sulle sue, ma con quella mossa ottenne anche di farmi inarcare la schiena, portandomi a spingere il mio seno contro il suo torace. Approfondì il bacio, e in breve ci ritrovammo a fare quello che avevamo fatto tutta la notte. Embry era così. Con le parole non ci sapeva fare, ma mi dimostrava ogni secondo che mi amava. Ogni secondo.
«Embry. Ti amo» gli dissi, mentre mi abbracciava stretta, dopo l'amore.
«Leah... so che non è il momento, né il modo giusto, soprattutto dopo l'esempio che il nostro capobranco mi ha dato non più di una settimana fa, ma... vuoi sposarmi?» mi chiese, poggiando il naso sul mio collo.
«Embry...» gli risposi.
«Leah, non ricominciare»
Mi voltai verso di lui, rimanendo tra le sue braccia.
«Embry... sì. Sì, ti sposerò. Ti sposerò perché sei insistente, petulante, e perché mi fai arrabbiare ogni volta che apri bocca. Ti sposerò perché per una volta voglio essere egoista, e tenerti per me. Ti sposerò perché sei tutto ciò che ho sempre desiderato e che sempre desidererò. Sicurezza, amore, passione e... sì, ti sposerò»
«Leah, ti amo» mi disse.
«Anche io... ma... - all'improvviso un pensiero mi colpì - Embry, dove hai lasciato Sarah?»
Lui scoppiò a ridere, e mi spostò una ciocca di capelli dalla fronte.
«Ti sei ricordata in fretta, eh? E' venuto a prenderla Jake»
«Ma...»
«Non gli ho detto nulla. Tranquilla. Lo farà Sarah. Abbiamo parlato un po', ed è arrivata alla conclusione che questa sia la scelta migliore. Ma non parlerà con tuo fratello»
«Prima o poi dovrà farlo» gli risposi.
«Prima o poi lo farà. Solo non ora. Pensa che sarebbe troppo per lui. E concordo con lei»
«Perché?»
«Perché pensandola come donna non riuscirebbe più a vederla come la bambina che è»
«Sai che saresti un ottimo padre?» gli dissi, accarezzandogli il viso, con la barba di un giorno.
«Lo sarò - mi rispose, stringendo nuovamente le braccia dietro la mia schiena ed attirandomi contro di lui - lo sarò»
Mi baciò sulle labbra, come a suggellare quella che era una promessa. Una promessa che avrebbe mantenuto ad ogni costo.

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