Capitolo 73

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Nevaeh

Il suono dei nostri respiri profondi fa da protagonista nella stanza. Chiudo gli occhi, cercando di non pensare alla ferita sul mio stomaco, per poi aprirle quando il dolore sembra essersi attenuato per qualche secondo.

Nate è appoggiato contro il mobile sotto al lavandino, con le gambe al petto e i gomiti posati sulle ginocchia. Il suo sguardo è su di me, ma il mio non è su di lui, è fisso su un punto indefinito.

È stato in silenzio dopo che ha preso il pezzo di carta sul pavimento, torturandosi il labbro inferiore con i denti e tirando il cerchietto nero a lato del labbro, fino a farlo quasi staccare.

Faccio un respiro profondo e poso la mano sul pavimento, mettendo tutto il peso su di essa, così che riesco a sedermi. Una smorfia di dolore compare sul mio viso e d'istinto metto anche l'altra mano a tamponare la ferita.

«Non ti muovere velocemente.» La voce roca di Nate interrompe nel bagno, tagliando la tensione creatasi per via del silenzio. Si alza, dandosi una spinta e cinge la mia vita con le sue braccia muscolose per aiutarmi ad alzare.

«Grazie.» Dico rapidamente e mi avvicino allo specchio, guardando la mia immagine riflessa. Le occhiaie contornano il mio viso, così come le macchie di sangue sulla guancia. Lancio un'occhiata veloce a Nate attraverso lo specchio: è di profilo, con le braccia incrociate che mi sta guardandolo.

Ignoro i suoi occhi penetranti su di me e apro il rubinetto, mettendo la mano sporca sotto il getto d'acqua fredda, iniziando a sfregare le mani tra di loro.

«Non partirà un cazzo in questo modo.» Alzo gli occhi e giro la testa nella sua direzione. Scioglie le braccia e porta una mano sul rubinetto regolando l'acqua fino a farla diventare tiepida. Prende il mio polso e lo tiene sotto l'acqua sfregando i suoi polpastrelli sulla mia pelle, facendoli scontare con il freddo degli anelli.

L'acqua trasparente si tinge di rosa sul bianco del lavandino, quando lava via il liquido scarlatto. I nostri respiri si unisco per la vicinanza. Il suo respiro accarezza la mia guancia e il mio si scaglia contro il suo collo.

Nessuno dei due proferisce parole, anche se le domande nella mia testa sono tante, ma per ora solo una necessità di essere risposta. Le sue pupille dilatate sono la causa della fenciclidina? Sembra troppo calmo per essere lui.

«Non risponderò a nessuna delle tue domande, quindi smettila anche solo di pensarci.» La sua voce tuona tra la poca distanza tra di noi. Come se mi avesse letto nella mente, oppure perché sono diventata prevedibile con le mie domande.

In un modo o nell'altro avrò risposte.

«Come minimo non lo farai.» Farfuglio tra me e me e lui si irrigidisce, lasciando il mio polso. Chiudo l'acqua e ignoro il suo comportamento. Il dolore pungente della ferita inizia a dilaniarsi su tutto il corpo. La sua vicinanza è come se lo avesse anestetizzato.

«Come è successo?» Faccio per alzare il lembo della felpa, ma la sua voce mi ferma, e la sua domanda mi impedisce di medicare la mia ferita.

«Possiamo parlarne dopo? Ora vorrei med-» La sua voce mi interrompe, seguita dal pugno sbattuto violentemente contro il lavandino. Sobbalzo per via del suo gesto, ma non mi muovo dalla mia posizione.

«Parla. Adesso.» La mia testa gira di scatto verso la sua e lo guardo con un cipiglio per via del tono che ha appena usato. «Ti ho detto che prima voglio medicare la fer-» Questa volta ad interrompermi è la sua mano che afferra bruscamente il mio viso, facendomi avvicinare a lui.

I nostri occhi si incontrano, ma il color giada è sostituito dal colore nero delle sue pupille, che occupa maggior parte dell'iride. Il suo respiro è corto e affannoso. Il suo sguardo scruta attentamente il mio viso e si sofferma sulla mia fronte.

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