𝟏𝟐. 𝐔𝐧 𝐛𝐫𝐚𝐯𝐨 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐨

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Terzo superiore

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Terzo superiore

Alessandro

Quando entrai in casa, dopo gli allenamenti, al posto dell'abituale silenzio fui accolto da risate sommesse provenienti dalla cucina. Non avevo avvertito mia madre che sarei rientrato per l'ora di cena. I rapporti tra noi erano ancora tesi e lo sarebbero stati finché lei non mi avesse dato delle spiegazioni in merito al suo strano atteggiamento e ai lividi che le avevo visto.

Adagiai il borsone all'entrata e mi diressi silenziosamente verso la cucina. Mi sporsi quanto bastò per vedere mia madre tra le braccia di un uomo. Entrambi avevano in mano un bicchiere di vino rosso e parlavano sorridendosi come due adolescenti alla prima cotta.

«Buonasera». La mia voce ruppe il loro chiacchiericcio.

«Alessandro...». Il tono allarmato di mia madre confermò i miei sospetti. Non si aspettava di trovarmi a casa così presto.

Il mio sguardo andò dritto sull'uomo che le cingeva il braccio intorno alla vita. Con un paio di falcate fui di fronte a lui.

«Chi cazzo sei tu?»

Era poco più alto di me e sembrava sulla quarantina. I suoi occhi castani mi scrutavano attraverso un paio di occhiali dalla montatura spessa che avrei ben presto rotto a suon di pugni.

Mamma si interpose tra noi, lo sguardo carico di rimprovero, le guance e il collo arrossati per l'imbarazzo.

«Scusati subito».

«È questo il pezzo di merda con cui ti vedi?», lo indicai con un cenno del capo, ignorando il suo ordine.

«Ragazzo, bada a come parli con tua madre», s'intromise lo sconosciuto.

Feci un altro passo in avanti, sporgendomi oltre la testa di mia madre. «Altrimenti cosa mi fai quattrocchi? Mi alzi le mani come fai con lei? Se le vedo un altro livido giuro che...».

Uno schiaffo mi impedii di terminare la frase.

«Ti ho educato meglio di così!», urlò con la voce spezzata dal pianto imminente.

Non ci aveva mai torto un capello, a me e Nicola. Quel gesto mi spiazzò al punto che le parole mi morirono in gola. Mi sfiorai la guancia con i polpastrelli, un leggero formicolio iniziava a diffondersi. Piantai i miei occhi nei suoi.

Erano uguali. Ugualmente delusi dalla persona che stavano guardando.

«Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare». Mi sfuggii un sorriso amaro. Scossi la testa, ancora incredulo. Le voltai le spalle perché, nonostante tutto, non volevo vedere le sue lacrime. «Non mi aspettare sveglia», dissi dirigendomi verso il portone, ignorando la sua voce disperata che mi pregava di restare.

𝐒𝐓𝐀𝐈 𝐂𝐎𝐍 𝐌𝐄Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora