1. Shiawase

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Felicità 


La felicità era un concetto difficile da comprendere.
Si diceva fosse lo stato d'animo positivo di chi riteneva soddisfatti i propri desideri, di chi raggiungeva gli obiettivi che si era prefissato in precedenza.
Quando qualcuno si sentiva felice lo si notava subito: gli occhi sembravano avere luce propria, il sorriso era largo sul volto e la persona in questione sprizzava gioia da tutti i pori.
Una persona felice amava stare in mezzo alle persone, passeggiare all'aria aperta, passare il tempo facendo quello che più l'appassionava.
O almeno... questo è quello che aveva sempre sentito dire dalle persone attorno a lui e dai professori a scuola.

Ma che ne era di coloro che non avevano desideri, che non avevano ambizioni, che non avevano interessi verso niente e nessuno, che non avevano amici con i quali condividere le proprie esperienza di vita...
Sua madre glielo ripeteva in continuazione come una tiritera:
Che cos'è la felicità mi chiedi? Una casa, con dentro le persone che ami e desiderare quello che si ha.

Ma lui non amava le persone nella casa nella quale abitava da diciassette anni.
O meglio, lui non provava alcun tipo di sentimento nè positivo nè negativo verso i componenti della sua stessa famiglia.
Come avrebbe potuto amare una madre che lo aveva abbandonato all'età di cinque anni? O amare un fratello che prima di essere cacciato di casa aveva tentato di ucciderlo con dei coltelli? O meglio ancora... come poteva amare l'altro fratello che si era trasferito per non vedere nè lui nè loro padre, lasciandolo nelle sue mani?

Forse un sentimento ben chiaro lo provava. 

Odio.

Odio per i suoi fratelli e per se stesso.
Perchè non solo non riusciva ad interagire con i ragazzi della propria età, ma perchè non aveva il coraggio di ribellarsi a quel padre che da lui esigeva solo perfezione, diligenza, maturità... sottomissione.
Da piccolo aveva sempre sognato di andare al parco giochi, di uscire con gli amici al cinema o di imparare a suonare il flauto di pan, strumento musicale preferito della madre.
Ma no, a detta di suo padre doveva solo allenarsi per rafforzare la muscolatura, doveva studiare e ambire sempre al primo posto, in ogni singola cosa che faceva a scuola e a casa.
Perchè secondo suo padre era colui che avrebbe portato in alto il nome della famiglia, temuta e stimata da tutti da intere generazioni.
E non avrebbe potuto sgarrare... perchè lo sapeva benissimo... ogni azione errata aveva come conseguenza una punizione adeguata.


"Che cosa ti turba Shoto? Puoi dirmelo, sono qui per questo"
Le iridi eterocromatiche si sollevarono e osservarono la figura della donna minuta seduta di fronte a lui.
Tra le sue dita teneva un taccuino nel quale però non aveva scritto ancora niente, come se fosse servito solo a ricordare al ragazzo quale fosse la sua professione. 
Era una donna gentile, che stava rischiando ad essere lì ma a lei non importava se la sua presenza poteva giovare al ragazzo.

"Niente, riflettevo solo sulla domanda che mi ha fatto".

"Sai darmi la tua risposta?"

"La felicità è un concetto che andrebbe revisionato. Ma se questo non le basta le posso dire che sono felice di essere arrivato primo alla gara di tiro con l'arco la scorsa settimana."

"Ne sei felice perchè lo volevi quel primo posto o per altro?" 
Il ragazzo si mutò e non rispose, osservando di nuovo fuori dalla finestra, immaginandosi steso sul prato a leggere un bel libro storico.
La donna sorrise e si alzò raccogliendo le cose nella sua borsa dopo aver visto l'orario sul suo orologio da polsi.

"Abbiamo finito. Ci vediamo la prossima settimana va bene?" Non ricevendo risposta la donna lo salutò con un gesto della mano e uscì dalla sua camera, conoscendo benissimo il percorso per uscire da quell'enorme casa.
Il ragazzo rimase nella sua stanza in silenzio per diversi minuti, prima di alzarsi e percorrere il lungo corridoio che l'avrebbe portato in cucina.
Sentì armeggiare con pentole varie e si chiese cose ci sarebbe stato per cena.

ShoganaiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora