Capitolo 2

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Chiudo le note sul mio iPhone, alle quali, troppo spesso affido i miei pensieri, le mie riflessioni, metto nero su bianco i miei tormenti. Preparo il borsone per la palestra, ci vado praticamente ogni giorno, dopo il lavoro. Quando sudo, corro sul tapis roulant, o tiro i pugni al sacco durante l'ora di Punch non penso a nulla, sono solo io, concentrata e forte. Mi piace frequentare la palestra, ho fatto amicizia con persone diverse e organizziamo a volte delle cene, sono divertenti. L'attività fisica non mi aiuta solo a mantenere in forma il mio corpo ma anche e credo, soprattutto, la mia mente. Posso essere nervosa, incavolata nera con il Mondo, avere avuto una giornata pessima a lavoro ma dopo anche solo dieci minuti che sgambetto nelle mie scarpe da ginnastica, ritrovo il mio equilibrio, sorrido, sto bene, mi rilasso e dimentico tutto.

Oggi l'ufficio chiuderà presto, solo mezza giornata, dobbiamo tutti prepararci per la festa di questa sera, il lancio della nuova collana di racconti fotografici, editi dalla casa editrice per la quale lavoro. Sono stati mesi impegnativi più del solito, ho curato tutte le prefazioni e combattuto con le esigenze di quello o l'altro autore/fotografo più o meno snob. Non sono tutti uguali ma, a parte Mark, un quarantenne italo-tedesco, figlio di armatori, talmente educato e gentile da aspettare sempre che io mi liberassi, tutti gli altri invadevano i miei giorni con telefonate, mail, messaggi, sommergendomi di richieste e pretese, alle quali, non potevo sottrarmi.

Il Sig. Manatti, il mio capo diretto, mi aveva avvertita e preparata prima che tutto iniziasse, aveva ricevuto direttive specifiche dal Direttore Generale e non poteva fare altro che riversarle su di me, sapeva di caricarmi di responsabilità e ulteriori ore di lavoro ma le ho accettate di buon grado perché nel tono della sua voce e nei suoi occhi, c'è sempre una grande stima nei miei confronti e una comprensione paterna che si contrappongono, equilibrandone il peso, a tutte le stressanti richieste a cui devo adempiere. Finalmente dopo oggi seguiranno almeno due settimane di tregua, nelle quali potrò occuparmi dei miei autori preferiti, quelli con i quali ho consolidato dei rapporti di reciproco scambio, amalgamato i gusti e alcune volte stretto amicizia. Quindi ho pensato di passare qualche ora in palestra per sfogarmi bene e arrivare rilassata e piena di energie all'evento, ho già prenotato il parrucchiere e scelto cosa indossare. Chiudo il mio borsone, prendo la borsa ed esco chiudendomi la porta dell'appartamento alle spalle.

I rumori del traffico mi travolgono surclassando completamente i miei pensieri. Nonostante viva in questa città da quasi un anno, non sono ancora abituata alla frenesia e al continuo, perenne sonito dei clacson che gracchiano ininterrottamente. E poi la metropolitana, ormai padroneggio i vari colori dei percorsi ma la calca infinita non riesco proprio ad accettarla, tengo gli occhiali da sole anche al coperto e spesso indosso le cuffie, sono diventata la tipica manager indaffarata che si isola, ma lo faccio per proteggermi, rimanere in una bolla solo mia che mi faccia sentire meno l'ansia di condividere degli spazi così stretti, sottoterra soprattutto, con una folla in continuo movimento. Per fortuna non devo fare alcun cambio per raggiungere l'ufficio ma solo quindici minuti di tratta che passo ascoltando musica o leggendo le bozze rivedute e corrette. Poi risalgo le scale e la luce del giorno mi colpisce, riportandomi in vita.

Attraverso l'atrio del palazzo, saluto Giovanni, l'anziano portiere, 

«  Buongiorno bellissima», 

mi dice come sempre da quando quel primo giorno vedendomi entrare, smarrita, mi chiese chi stavo cercando e si presentò dichiarandosi a mia disposizione per qualsiasi cosa. Ricordo che pensai subito di sentirmi un pò al sicuro sapendolo lì e il suo sorriso mi riportò a quello di mio nonno materno, il mio preferito, forse perché gli altri erano morti quando ancora ero troppo piccola per ricordarli bene, anche se chiudendo gli occhi mi appaiono delle immagini, incancellabili. Le passeggiate mano nella mano con mio nonno paterno, il sorriso orgoglioso di sua moglie mentre mi ascoltava leggere e lo sguardo, dolcissimo, di mia nonna materna, distesa a letto, malata, consumata ormai dai dolori interminabili ma sempre pronta ad ascoltarmi mentre parlavo seduta sul bordo del letto, accanto a lei. E poi c'era lui, il papà di mia madre, un omone alto e robusto, le grandi mani dai palmi ormai cosi duri da riuscire a tenere un fico d'india, per sbucciarlo, senza che alcuna spina potesse pungerlo. Trascorrevo mattinate insieme a lui mentre la mamma gli ordinava casa e preparava da mangiare, un uomo senza pretese, che aveva lavorato tutta la vita e che ora era rimasto solo, perché mia nonna, il suo grande amore, era volata via. Era rimasto con lei, giorno dopo giorno, senza allontanarsi mai dal suo capezzale, in quei due lunghissimi anni di sofferenze e strazio, forse aveva capito, prima di tutti, che il suo tempo insieme a lei stava finendo e non voleva sprecarne neanche un pò. Adesso si ritrovava in quella grande casa da solo, sedeva sempre sul balcone, guardando chi passava e sorridendo, non l'ho sentito mai pronunciare parole dure o prendersela con il Mondo, parlava con me e ascoltava i miei discorsi da bambina, amava mia madre non facendola mai preoccupare, seguendo le sue indicazioni e ogni volta che andavamo via per tornare a casa nostra, mi mancava un pò di più. Avrei voluto che almeno lui ci fosse stato quando crescendo litigavo con i miei genitori o prendevo un bel voto a scuola, se non tutti e quattro solo lui, per corrergli incontro e abbracciarlo.

Quando il cielo non bastavaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora