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(Se vi va, fate partire la canzone che vi lascio sopra quando vedete l'asterisco, buona lettura.)




"In the crooks of your body,
I find my religion."



Riyas

A volte, per far distogliere lo sguardo dal raggelante abisso a quei pochi che della vita avevano capito tutto, l'universo donava una maledizione travestendola da benedizione

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A volte, per far distogliere lo sguardo dal raggelante abisso a quei pochi che della vita avevano capito tutto, l'universo donava una maledizione travestendola da benedizione.

Le emozioni umane mi disgustavano, la vulnerabilità aveva mille facce, ma mai la mia. Eppure le sentivo, le provavo, le percepivo in maniera amplificata. Dettagli, angoli polverosi nascosti nel buio, sguardi fuggenti, tremolii di ciglia, erano il mio tormento.
Con le stessi mani con cui versavo sangue, impugnavo una matita, un pennello, un pezzo di carbone e disegnavo.

Siamo esseri poeticamente ambivalenti, corrotti da una spietata dolce voglia di vivere, impauriti da ciò che ci aspetta dopo la morte.
Siamo essere finiti condannati ad una struggevole tendenza al ricercare l'infinito in tutto ciò che ci circonda. Nella distribuzione della luce che crea ombre, nel deterioramento di una città che non riposa, nelle frasi che sottolineiamo in libri che non comprendiamo fino infondo, nelle note di un pianoforte sul bordo di una strada.

Cerchiamo, o meglio diamo la caccia, a ciò che ci mette a tacere l'anima, a ciò che ci da l'illusione di poter essere infiniti, esistere per sempre, nelle piccole cose. Ecco spiegata l'innata necessità dell'uomo di creare arte, in ogni sua smaniata forma. L'arte era la risposta alla continua ricerca di quelle anime tormentate che domandavano di stringere tra le dita un infinito che non ci apparteneva, esseri effimeri.

Sarei stato più in pace con me stesso e con il mondo se non l'avessi capito, se non mi fossi ritrovato a far pare di quel gruppo di persone che aveva il bisogno incontrollabile di creare, dare forma, immortalare ciò che gli occhi apprezzavano in un tacito silenzio.

Eppure lo capivo, lo sentivo in ogni centimetro di pelle, in ogni battito di un cuore sprecato.

Mi tormentava, le dita prudevano, nella testa si creavano centinaia di combinazioni di colori che avrei potuto usare per dare vita a ciò che mi si parava davanti, a come lo vedevo, a come lo percepivo, senza le barriere di una realtà troppo stretta, banale, che uccideva l'immaginazione.

"Dipingi ciò che hai dentro e finirà appeso in tutti i musei del mondo."

Era una frase che mi perseguitava, non toccavo un pennello da tre anni. Sentivo la sua voce, lieve come una carezza che ti risvegliava da un sonno profondo, ogni volta che chiudevo gli occhi. Anche in una dimensione onirica, il suo tono, la sua espressione speranzosa, i suoi occhi gentili, avevano lo stesso effetto su di me.

Ma poi mi risvegliavo, e facevo di nuovo i conti con quell'impulso viscerale di tirare tutto fuori, la rabbia, l'autocommiserazione, il tormento, l'angoscia, e convertirli in dipinti astratti, disegni maledetti, rappresentazioni a cui non ero pronto a dar vita. Ma seduto su quella fottuta poltrona, con le luci dell'alba che accarezzavano il corpo della causa del mio eterno dibattito interiore, sentii ci fosse qualcosa di diverso.

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