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quando vedete l'asterisco fate partire la musica :)


"Facciamo un patto:
se ti accendo, brucia per me."

Riyas

Conobbi Jason Moore quando la vita iniziò a fottermi senza esitazione, conducendomi in un abisso che sprofondava verso l'ignoto

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Conobbi Jason Moore quando la vita iniziò a fottermi senza esitazione, conducendomi in un abisso che sprofondava verso l'ignoto.

E per quanto odiasse ammetterlo, era stata l'essenza della sua anima tormentata a condurlo a me, a far sì che prendesse le botte senza lamentarsi, a far sì che seguisse le orme del ragazzo che ogni sera scendeva nello scantinato dell'Eden e si faceva pestare da uomini più forti, più robusti, più esperti di lui. Per l'ebrezza di sentire qualcosa, attenuare il dolore che lacerava le sue interiora con il dolore fisico, quello tangibile, a cui si poteva rimediare con delle garze e dell'alcol.

Portavamo sulla pelle lo stesso slabbro di ferite identiche, una collezione di cicatrici che pensavamo di meritare.

Erano stati i lividi, i nasi rotti, i segni sul mio corpo a condurlo a me. Per la prima volta Jason Moore non si era sentito solo nella folla che lo circondava, per la prima volta le cicatrici che lo marcavano erano meno speciali, meno uniche, meno dolorose. C'era qualcun altro che inseguiva il dolore come un cane randagio inseguiva l'odore di carne, non per autolesionismo, ma per sopravvivenza.

Jason aveva sempre e solo sopravvissuto, o almeno fino a quando, in quella notte piovosa, non prese la pessima decisione di mettere piede all'Eden in cerca di soldi facili. Era l'inizio della fine, il preludio di un rapporto di amicizia che finì per sfociare in odio.

Le voci dicevamo che l'unica cosa da fare era salire sul ring e battere il proprietario del posto, un diciottenne arrogante, con un sorriso storto e sadico e le nocche delle mani completamente distrutte.

L'avevo riconosciuto subito nella folla, sarebbe stato impossibile non farlo tra il mucchio di vecchi ubriachi che attendevano impazientemente di ricevere la somma di soldi scommessa, gridando come animali tenuti in gabbia. Camminava con le spalle dritte, una postura quasi regale, e gli occhi fissi su di me, i suoi capelli erano nascosti sotto il cappuccio della felpa nera che indossava, cercando di passare inosservato.

Mi aveva studiato con lo sguardo, fissando con interesse i tatuaggi sul mio addome imperlato dal sudore. Non sembrava sapere chi fossi, o chi fosse mio padre, o forse non gli importava. Non distolse lo sguardo, nemmeno quando Enea gli si avvicinò per intimargli di allontanarsi dal ring. Nessuno era autorizzato ad avvicinarmi dopo un combattimento, soprattutto quando la maggior parte delle volte si trattava di uno dei tanti che dopo avermi visto vincere desiderava farmi fuori.

Ogni notte era la stessa storia.

Ne ero fottutamente ossessionato. Erano gli anni in cui iniziai ad assaporare l'ebrezza del rischiare la morte almeno una decina di volte in una sola giornata, ne divenni dipendente.

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