Mina mi fissava imperturbabile. I suoi tratti per quanto belli ed eleganti erano duri, il suo viso strano, mutevole. Era un viso già maturo sul quale lievi segni del tempo già si poggiavano come piume sulla pelle. Iniziarono a vedersi sempre più spesso, relegando sapientemente quella frequentazione al minuscolo mondo recintato che si erano creati, ma lui era un essere volgare e ignorante. Bello senza dubbio, ma un ragazzo di strada che cercava rifugio nel cuore di una ragazza privilegiata. Lei lo riceveva a casa e lui si ubriacava di arte e poesia, andava lì a prendersi un qualcosa che non gli era mai stato insegnato. Le persone che hanno il tempo di contemplare un quadro, o ascoltare musica classica a cena, sono educati alla sensibilità, all'elevazione spirituale. Hanno più tempo, si muovono più lentamente, sono in armonia con sé stessi e raramente con gli altri. Hanno i loro ritmi e i loro infiniti bisogni. Un ragazzo cresciuto con fame e rumori, clacson e puntualità, non sa cosa sia un mondo del genere, non lo immagina, né tantomeno pensa possa esistere; e non appena prende atto di quella esistenza ne resta sconvolto, folgorato. Per lui lei racchiudeva quel mondo misterioso e fiabesco di cui non poteva far parte.

Lenzuola bianche e la luce bianca delle giornate uggiose a Napoli. Lui che tentava talvolta goffamente, talvolta con grande pathos di rivelarle i propri sentimenti, consapevole che lei non li voleva sentire. L'amore è sempre qualcuno che parla e l'altro che ascolta; lei non voleva ascoltare, per quanto attratta da lui, voleva soltanto essere lasciata in pace. Per quanto rude, arrivò il momento in cui una sua frase la fece schiudere.

'Riconoscerti è stato per me accettare la dannazione della mia misera anima mite, riconoscere nel tuo viso i colori forti della vita, nei quali però c'è sempre il rosso. In ogni colore ci sei tu che sei rosso, perché sei sangue. Lo so che pensi che il tuo colore sia il nero, ma tu non sei soltanto la morte, sei la vita che c'è nella morte. Abbandonati a questa passione. Respira dentro di me. Apri la bocca, respira, fammi sentire quanto profuma la tua anima tutta intera. Brava così, non ridere, non farmi baciare i denti, fammi sentire l'anima, ti prego, ne ho bisogno.'

S'intenerì all'improvviso, e intanto dentro di sé iniziava ad alternare momenti di lucidità a momenti di ebbrezza.

Quando si svegliava da quel torpore pensava: 'Non può darmi nulla questo ragazzo, a parte la gioia di momenti semplici'. Ma ecco che ricadeva, ed era un'altalena continua. La resistenza che oppose Mina nei suoi confronti fu disperata. Non aveva niente a che fare con la resistenza fisica, era piuttosto una resistenza del cuore che non voleva rassegnarsi. Lui non se ne sarebbe andato, non le avrebbe mai manifestato il suo vero volto senza averla prima incastrata per bene, senza averla costretta con le buone o con le cattive ad amarlo. Doveva rinunciare alla ragione, doveva abbandonarsi; ma data la resistenza che opponeva, il processo fu lungo, doloroso, e consapevole fino all'ultimo.

'Riconoscerti è stato per me accettare la dannazione della mia misera anima mite, riconoscere nel tuo viso i colori forti della vita, nei quali però c'è sempre il rosso. In ogni colore ci sei tu che sei rosso, perché sei sangue. Lo so che pensi che il tuo colore sia il nero, ma tu non sei soltanto la morte, sei la vita che c'è nella morte. Abbandonati a questa passione. Respira dentro di me. Apri la bocca, respira, fammi sentire quanto profuma la tua anima tutta intera. Brava così, non ridere, non farmi baciare i denti, fammi sentire l'anima, ti prego, ne ho bisogno.'

Poi le scomparse, le chiamate a cui non rispondeva, il prendere tutto, come aveva fatto lei con gli altri fino ad allora, e il non lasciarle niente. Quella sfacciataggine tipica dei ragazzi come lui, che non demordono, che non presentano alcuna manifesta complessità, che sono semplici come l'amore che danno, e che avanzano nella vita con prepotenza come animali nuovi che conquistano una nuova posizione nella catena alimentare. Non lasciano fare al destino; il destino lo scrivono, se lo prendono. Fu una battaglia cruenta. Una bestia che sbrana una bestia della stessa razza. Le aveva tolto il trono senza che lei se ne fosse resa minimamente conto. La pelle di lei sempre profumata e liscia, era ora tutta sudata e graffiata, malconcia per la lotta di quel potere deviante e assurdo. Quel ragazzo non si sfamava mai, doveva prosciugarla fino all'ultima goccia, quella civetta, doveva stare alle sue regole, andava soggiogata per bene, doveva privarla di quella civetteria che padroneggiava con tanta fierezza, e doveva smetterla di credersi importante, perché era importante solo per lui, non doveva esserlo per tutti gli altri. Lei era pur sempre una femmina, e doveva fare come tutte le femmine. Doveva stare alle regole degli altri uomini. Banchettava sul suo corpo e sulla sua anima come se fosse stata sempre sua, e del sangue non gl'importava. Lei contrattaccava; mordeva, gli strappava le costole con i denti e si nutriva delle sue interiora con un compiacimento esasperato, ma a terra demolito e sanguinante lui trovava sempre la forza di rialzarsi e sferrarle l'ultimo colpo. La violenza dell'imposizione su di lei funzionò, come d'altronde funziona su ogni donna. Le molteplici frequentazioni di Mina improvvisamente cessarono, così come cessò il culto del suo individualismo. Non voleva più fare nulla senza di lui, le era passata ogni voglia. Si dispiaceva per dei comportamenti che lui aveva, e che fino ad allora aveva sempre avuto anche lei. L'indipendenza non la interessava più. Lui era riuscito a piegarla. E ogni qual volta lei risvegliava il suo animo indomito, un po' per dispetto un po' per noia, e tornava a sentirsi una donna sfuggente e inafferrabile, lui con le sue zampe grosse la bloccava sotto gli artigli, a terra e le faceva respirare la polvere. 

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