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Quella consapevolezza in una ragazza così giovane suscitò in me una curiosità insistente tanto che più volte nei giorni successivi mi ritrovai a pensarla. Lei animava quel corpo con i suoi gesti e i suoi sguardi in maniera tale che era pressoché impossibile non immaginarsela, anche se per un breve momento, nel proprio letto. Non sembrava esserci nulla di calcolato in lei, non aveva una vanità accentuata, e non le dispiaceva non essere al centro dell'attenzione. Questo perché lei era profondamente in armonia con sé stessa e nulla sembrava importarle. Il mio interesse però restava ancora confinato alla sfera fisica. Fu qualcosa che lei disse in seguito quella sera a turbarmi. Indovinò che ero un avvocato, senza che le lasciassi intuire nulla, e poi, con la sua aria distante e la bocca piegata in un sorriso di scherno 'e non mi dire...penalista?'. Io scoppiai a ridere, le chiesi come facesse. Ma lei mi parlò sopra e con tono concitato aggiunse che se lei fosse stata un avvocato si sarebbe divertita, giusto per prendere in giro la vita e prendere in giro sé stessa, a difendere le persone che commettevano i reati. Coloro, cioè, che a detta della società meritavano di marcire in prigione. Perché secondo lei la vera e autentica abilità è indurre l'intelligenza ad andare contro natura. Ad indurre noi stessi a credere di star facendo la cosa giusta anche se non è così. Ricordo che per un attimo pensai volesse fare colpo su di me e la cosa mi fece un po' sorridere, perché mi parve un gesto da fanciulla, ma poi mi ritrovai a pensare che magari era come diceva lei. L'intelligenza è la possibilità di ottenere tutto, con qualsiasi mezzo, anche al costo di diventare cattivi. Quando bussò il citofono, fui colto da un sussulto, ero perso nei miei pensieri. Giacché sapevo fosse lei, non mi presi la briga di dire "pronto?". Aprii la porta dell'ingresso dello studio così dal non doverla invitare a entrare. Ero intorpidito e volevo evitare inutili convenevoli. Non ne avevamo bisogno. Tra me e lei c'era stato fin da subito un desiderio di silenzio, un bisogno profondo di parlarsi senza proferir parola. Quella notte a Vico Belledonne c'erano state parole buttate un po' qua e un po' là, ma in mezzo a quelle c'erano stati brevi momenti sacri in cui non avevamo emesso parola e ci eravamo detti tutto. Per questo dopo tutto quel tempo lei aveva chiamato me quella sera, perché aveva ascoltato il silenzio, ed era esso stesso a condurla su per le scale di marmo di questo palazzo a via Crispi. Sentii il rumore di tacchi di stivali prima salire, poi fermarsi decisi sul pianerottolo. Immaginai che come me anche molti altri condomini dovevano averla sentita. Sperai non incontrasse nessuno, avrebbe potuto complicare le cose. La porta cigolò un poco e lei proseguì verso il corridoio guardandosi intorno. 'Sono qui' mi decisi a dire finalmente. Mina si fermò sul ciglio della porta, sorrise come se quella situazione non avesse dell'assurdo, come se fosse del tutto normale non avere confidenza con una persona eppure chiamarla all'improvviso dopo mesi e andare a trovarla nello studio alle dieci di sera. 'Posso?' chiese timidamente.

Le feci cenno di sedersi sulla poltrona in pelle,mentre io ero ancora seduto alla scrivania e fingevo di scrivere qualcosa sullatastiera del mio computer. Non volevo farle credere di averla aspettata senzafare nulla, non volevo credesse di essere l'unica ragione per cui ero nel miostudio quella sera. Lei fece come le avevo detto. Posò la borsa a terra,accavallò le gambe e incrociò le braccia in attesa. 

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