Capitolo 13

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Pov Alessandra

Il giorno del giudizio era arrivato.

Iniziai la mia giornata con la stessa vitalità con cui un condannato a morte si accinge ad andare al patibolo, ma infondo, io al patibolo ci stavo andando veramente.

Era il giorno dell'esame.

Entrai in bagno e mi guardai allo specchio.

Porca miseria, ero orribile.

Ero indecisa; non sapevo se mantenere il mio look da studentessa depressa affetta da insonnia, puntando così alla clemenza, oppure cercare di fare un miracolo degno di un mago del make up.

Optai per una via di mezzo.

Sì, come se l'esito del mio esame dipendesse dal mio aspetto.

Sbuffai sonoramente e mi buttai sotto la doccia.

Era trascorsa una settimana dal cosiddetto giorno X; sette giorno che non lo vedevo e che non parlavo con lui, sette giorni che avevo trascorso tra i libri, le camomille e a maledire lui, il diritto penale e me stessa, soprattutto me stessa.

Perché io ero un idiota.

Ero un idiota, perché facevo di tutto per rendermi le cose impossibili; amavo complicarmi la vita ed iniziai a sospettare di avere qualche forma di masochismo e di provare gusto nel farlo.

Fortunatamente ero riuscita a guadagnare qualche giorno di studio in più grazie alla divisione in matricole, giorni trascorsi tra codice, norme, articoli e libri, giorni trascorsi a provare a non pensare a lui.

Ma non ci ero riuscita.

Ero un disastro.

Ricapitolando: avevo mandato a quel paese il mio assistente, il quale, essendo molto vendicativo, mi aveva bocciato all' esame inducendomi ad odiarlo, anche se poi avevo compreso che la ragione della mia bocciatura non era dovuta ad un risentimento personale, ma a ragioni ben più nobili.

Dopodiché, per una serie di sfortunati eventi, il mio odio iniziale si era trasformato in una leggera cotta, che poi a sua volta era cresciuta sempre di più, fino a trasformarsi in un sentimento più profondo.

Ma non era finita lì.

Ci eravamo baciati, avevamo fatto l'amore e lui, non solo non condivideva la mia stessa felicità, ma aveva deciso di spazzare via anche la mia con tre paroline del cazzo.

Mi sentivo ferita.

Mi sentivo ferita, come mai nessun altro uomo mi aveva fatto sentire, perché io quella notte ci avevo messo tutta me stessa, perché io quella notte non avevo solo goduto del suo corpo, io avevo goduto del calore derivante dal fondermi completamente con un altro, avevo goduto del piacere di donare quanto di più caro potessi avere.

Io gli avevo donato la mia anima.

E lui l'aveva presa, l'aveva illusa del fatto che si sarebbe preso cura di lei e poi l'aveva gettata, calpestata ed umiliata, come se fosse carta straccia, incurante della sofferenza e del dolore che le poteva causare.

L'aveva spezzata.

Ma nonostante tutto, io continuavo a definirla come la notte più bella della mia vita.

E provavo rabbia.

Provavo rabbia, perché lui aveva rovinato tutto per far stare meglio sé stesso con i sensi di colpa, provavo rabbia, perché aveva definito squallido un qualcosa di unico e da me tanto agognato.

E lo odiavo per questo, o meglio, ero tornata ad odiarlo, ma non solo, lo avevo anche mandato a quel paese a pochi giorni dall'esame e adesso continuavo a prepararmi, pregando mentalmente Dio, affinché Ferraro non si vendicasse e facesse il professionista, proprio come era successo un mese prima.

Deontologicamente scorretto [#Wattys 2017]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora