The day.

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Probabilmente mi odierete per i due mesi di ritardo, e forse dopo questo capitolo mi odierete ancora di più.
Sappiate solo che è l'ultimo, poi ci sarà l'epilogo e la storia sarà completa.
Buona lettura!

[Kelsey's POV]

Quando la sveglia suonò quella mattina io ero già sveglia da molto. Probabilmente non avevo neanche dormito, non lo ricordavo. Ma non aveva importanza.
Sospirai, e lasciai che il braccio si alzasse da solo dalla mia fronte e desse una botta alla sveglia per farla star zitta. Mi misi a sedere, scalciando via le lenzuola dal mio corpo e lanciando una breve e disinteressata occhiata al paesaggio fuori dalla finestra della stanza; poggiai i piedi sul pavimento freddo, rabbrividendo leggermente, e mi presi qualche attimo prima di alzarmi e trascinarmi fuori dalla stanza e giù per le scale, fino alla cucina.
La casa era silenziosa; probabilmente stavano ancora tutti dormendo. Avevo lo stomaco chiuso, perciò lasciai perdere l'idea di fare colazione. Mi preparai con molta lentezza, il mio corpo si muoveva da solo compiendo quei gesti meccanici che ormai sembrava aver imparato a memoria. Quando fui pronta presi le mie cose e scesi lentamente le scale con lo zaino in spalla, scendendo fin nell'atrio per prendere le chiavi di casa e uscire.
Passai di fronte al piccolo specchio posto sopra il comodino accanto all'attaccapanni, e commisi il grave errore di lasciar scorrere gli occhi sulla superficie liscia e riflettente.
Sentii solo distrattamente il rumore metallico delle chiavi che si scontravano con la moquette, troppo assorbita dall'immagine di me stessa, i miei occhi che scannerizzavano il viso di quella ragazza che aveva solo le mie sembianze. Un viso vuoto, spettrale, senza emozione. Un viso di chi ormai ha perso la voglia di fare qualsiasi cosa, un viso di chi si sente perduto, perché stanno per essergli portate via quelle piccole cose che erano entrate a far parte della sua quotidianità, a cui si era abituata, di cui si era innamorata.
E sembrava tutto così dannatamente ingiusto.
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Le ore a scuola sembravano non passare mai. Lunghe, interminabili ore di lenta agonia e noia mortale, oppressa da delle pareti ingiallite dal tempo e dai maltrattamenti subiti, dalle continue e costanti occhiate delle persone attorno a me.
Non che me ne importasse. Non riuscivo a sentire nulla, tranne il vuoto; era come se con delle semplici parole il mio mondo avesse improvvisamente smesso di girare per un momento, per poi riprendere la rotta nella direzione opposta.
Sospirai, udendo a malapena la campanella di fine lezioni. Raccolsi le mie cose e mi avviai lentamente fuori dalla classe ormai vuota, camminando per quei corridoi così familiari.
Mi fermai davanti al mio armadietto, inserendo la combinazione e tirando fuori tutti i miei libri e quaderni per metterli nello zaino. Dopodiché, ignorando totalmente le voci dei miei amici che mi chiamavano dall'entrata della mensa, uscii dall'edificio.
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Una settimana.
Era passata una settimana da quando mio padre aveva pronunciato le fatidiche parole, spazzando via tutto il mio essere. Era passata una settimana da quando mi ero rinchiusa in camera mia, senza né mangiare né parlare con nessuno, uscendo solo per andare al bagno o alle ore più improbabili per evadere da quella casa, improvvisamente sconfortevole e tetra, o per andare a scuola al mattino. Era passata una settimana da quando avevo smesso di parlare con qualsiasi essere vivente a meno che non fosse necessario, una settimana da quando avevo preso ad ignorare i miei migliori amici, silenziando le loro chiamate e messaggi e cambiando direzione nei corridoi se mi capitava di intravedere dei familiari capelli ricci costantemente in disordine o una chioma bionda e degli occhi verdi e profondi; loro non avevano nessuna colpa, e li avevo lo stesso messi in mezzo a tutto il casino che era diventato la mia vita in pochi mesi, chiudendoli poi improvvisamente fuori senza una spiegazione. Era passata una settimana da quando avevo ripreso in mano il mio diario, quello su cui di solito mi sfogavo dopo la morte di mamma, segnando giorno per giorno quelle pagine rovinate dal tempo con i miei pensieri, le mie paure, o semplicemente con un riassunto della mia giornata.
Era passata una settimana da quando Luhan era stato trascinato a forza fuori da casa, portato chissà dove. Una settimana da quando non ho alcun contatto di alcun tipo con lui, o con il resto della mia famiglia. Ignoravo persino il bussare gentile di mio fratello, che di sbagliato aveva solo di essere tornato in un momento tremendamente inadatto e difficile.
Era passata una settimana, e mancavano solo poche ore prima che mi venisse definitivamente sottratta la felicità.
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"Kelsey?"
Una voce soffocata mi riportò alla realtà, e battei le palpebre. Mi ero persa di nuovo a pensare al nulla e fissare il vuoto. Un bussare gentile mi portò a girare lo sguardo verso la porta dipinta di nero, rimanendo in silenzio.
Un sospiro. "Ci sono Jessica e Yixing giù. Sono tornati di nuovo, già." ci fu un momento di silenzio in cui presi a giocherellare nervosamente con le mie dita, i sensi di colpa che iniziavano a farsi sentire. "Ascolta, dirò loro di andare a casa, okay? Come ho fatto ieri. E l'altro ieri. E il resto di tutta la settimana." riprese poi, e potei quasi immaginarlo nella sua solita espressione seria e la fronte aggrottata. Quasi sorrisi. "Ma sai bene che non potrai ignorarli per sempre. Loro ti vogliono bene, e non ti abbandonerebbero.. qualsiasi cosa succedesse." concluse, e strinsi le labbra. Ebbi la vaga impressione che parlasse di sé stesso.
Un altro sospiro, poi un lieve ticchettio sulla superficie della porta e il rumore soffocato di passi sul parquet.
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Erano le tre di notte. Era appena iniziata la domenica. Giocavo distrattamente con le punte dei miei capelli, guardando la finestra di fronte a me: il cielo era stranamente sereno, tanto che mi era possibile vedere le stelle sparse qua e la per quell'enorme e immenso foglio blu. Sospirai, poggiando i piedi per terra e andando verso la porta. La aprii cercando di fare il meno rumore possibile e andai verso la cucina. In tutta la casa regnava un silenzio tombale, quasi spaventoso.
Mi appoggiai con i gomiti al bancone della cucina, osservando per un attimo la stanza. Non sapevo neanche per quale motivo ero scesa; il mio stomaco sembrava chiuso, ed ero quasi certa che se avessi mandato giù qualcosa l'avrei immediatamente rigettata. Afferrai un bicchiere dallo scolapiatti e lo misi sotto il rubinetto, portandolo poi alla bocca.
Attraversai il salotto, diretta verso le scale, e l'occhio mi cadde distrattamente su una piccola cornice posta accanto alla televisione, sul mobiletto bianco. Mi avvicinai piano, afferandola e soffocando un singhiozzo, mentre tutta la malinconia e la tristezza di quei giorni sembrava accumularsi in me tutta in una volta. Mi accucciai a terra con le spalle al muro, accarezzando con le dita quella foto che ritraeva tutta la mia famiglia, i nostri volti sorridenti e felici.
Se la mamma fosse qui... forse mi saprebbe capire, capirebbe che quello che sta facendo papà è sbagliato, e non mi porterebbe via tutto.
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Erano le sei del mattino quando la sveglia suonò ancora una volta. Quello era il giorno, poche ore e avrei dovuto dire addio a tutto.
Il mio corpo giaceva immobile tra le lenzuola disordinate, la finestra leggermente aperta dalla quale entrava un leggero vento che raffreddava la mia stanza; non riuscivo a sentire neanche quello. Cercavo di alzare un braccio, o mettermi seduta, ma era come se mi avessero imbavagliata e costretta con delle corde al letto. Ero stanca, in tutti i sensi, non solo fisicamente. Non dormivo da giorni, a malapena mandavo giù qualcosa, e il mio aspetto doveva essere terribile.
Chiusi gli occhi, racimolando quelle ultime briciole di forza rimaste nascoste da qualche parte in me e alzandomi per prepararmi. Non sarei andata a scuola quel giorno, non potevo.
Avrei combattuto fino all'ultimo, non mi sarei arresa così facilmente.
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Dei leggeri passi dietro di me mi scatenarono un leggero panico. Il mio primo pensiero andò a mio padre, con il quale non avevo più parlato, e pensai che non sarebbe stato facile affrontarlo. Solo in un secondo momento ricordai che in realtà lui non era in casa, poiché aveva passato giorno e notte nel laboratorio.
"Finalmente riesco a vederti."
Stringo le mani sul marmo bianco del ripiano della cucina, girandomi lentamente verso mio fratello. Sembrava strano, rivederlo così; non avevo avuto contatti di nessun tipo con nessuno e, ironia della sorte, lui sembrava messo anche peggio di me.
Rimasi in silenzio, fissandolo. Lui non osò fare un passo verso di me, rimanendo all'entrata della stanza.
"Hai intenzione di parlarmi?" domandò con voce bassa.
Abbassai lo sguardo, separando quasi impercettibile le labbra come per parlare; ma era inutile, era come se mi avessero esportato le corde vocali.
Quindi rialzai gli occhi su di lui, notando che nei suoi occhi era comparsa una vena di tristezza, dolore. Le sue guance erano leggermente scavate, i suoi capelli leggermente scuriti e totalmente in disordine, delle profonde occhiaie gli mettevano in risalto gli occhi facendolo risultare quasi scheletrico.
Avanzò piano verso di me, e istintivamente mi strinsi nelle spalle premendo la schiena ancora di più contro il ripiano; sembrò notarlo, perché si fermò di scatto a pochi passi da me.
"Dannazione, Kelsey." sbottò, battendo un pugno sul tavolo. Sussultai, abbassando lo sguardo.
"Io non so nulla di tutto quello che sta succedendo, okay? Non mi interessa realmente, ma da quel poco che ci sto capendo di tutto quest'enorme casino è che forse avrei dovuto insistere di più con papà, e farlo parlare, perché davvero non sopporto come ti stai riducendo." parlò, il tono di voce che man mano di abbassava fino a diventare quasi un sussurro. "Ti stai autodistruggendo Kels, e mi sento impotente, perché so di non poter fare nulla per impedirlo."
Mi accorsi di star piangendo solo quando chiusi gli occhi, percependo una goccia salata scivolare lungo le mie guance fino alle labbra, dove si fermò.
"Mi-mi dispiace.." singhiozzai appena, la voce rotta un po' per il doloroso nodo alla gola che mi bloccava anche il respiro e un po' perché negli ultimi giorni dalla mia bocca era uscita solo aria.
Mi lasciai cadere per terra, ma prima che potessi toccare il pavimento freddo con le ginocchia, sentii due calde e familiari braccia avvolgermi e trasportarmi con loro; a quel punto non mi trattenni più. Infilai la testa sotto il mento di mio fratello e mi lasciai andare contro il suo petto, liberando finalmente tutte quelle lacrime represse e quel dolore che tenevo nascosto da tanto, troppo tempo, e che mi stava lentamente consumando.
Ripensai al volto sorridente di Luhan, a come doveva sentirsi in quel momento, a ciò che probabilmente gli stavano facendo: era come se mi stessi squarciando da sola il petto, aprendolo a metà e pugnalando ripetutamente il cuore. Poi i miei pensieri si spostarono su mio padre, e lì mi sentii un vero straccio. Non riuscivo ad odiarlo, pur desiderandolo. Sapevo che, nonostante tutto, le sue intenzioni erano buone, che stava solo cercando di proteggermi da un male che tuttavia percepiva solo lui: un male che gli era rimasto dentro, dopo la morte della mamma, che lentamente lo aveva annerito, portandolo a vedere tutto il mondo con occhi diversi.
E mi odiai. Odiai il fatto che non riuscissi a essere forte neanche in un momento come quello, che in un modo o nell'altro finivo sempre per perdere il comando della mia vita. Odiai tutta la situazione, e arrivai perfino a desiderare che non fosse mai accaduto nulla; desiderai che mio padre avesse un lavoro normale, desiderai che Luhan non fosse mai arrivato, desiderai non essermi innamorata di lui.
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I miei singhiozzi andavano lentamente calmandosi, fin quando non ci fu il completo silenzio attorno alle nostre figure. Ero seduta tra le gambe di Kris, le sue braccia strette possessivamente attorno al mio corpo come a proteggermi da qualcosa di invisibile; come a voler inghiottire parte di me e darmi un po' di pace.
Mi rilassai lentamente sotto il tocco delle sue dita leggere che passavano tra le ciocche dei miei capelli disordinati, e a poco a poco sentii tutta la stanchezza e le ore di sonno arretrate e accumulate in quei giorni piombarmi addosso in una sola volta, e i miei occhi si chiusero lentamente.
"Devi permettermi di aiutarti, Kels." fu solo un sussurro, prima che mi addormentassi del tutto, ma riuscì a trasmettermi quel po' di conforto di cui avevo bisogno.
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Era buio, tremendamente buio, e freddo. Non sapevo dove mi trovavo, attorno a me era tutto nero, come in uno di quegli spaventosi tunnel dell'orrore.
Mi strinsi le braccia al petto, come a proteggermi da sola, e azzardai un passo avanti. Mi sembrava di rivivere una scena del passato: non riuscivo a muovermi, era come se mi avessero legato ai piedi dei blocchi di cemento.
Provai a parlare ma la voce era bloccata; nessun rumore attorno, tutto era così silenzioso da far paura.
D'un tratto, davanti a me, una piccola e flebile luce bianca. Strinsi gli occhi, capendo solo dopo qualche momento che erano delle immagini.
"Luhan.." mormorai, mentre gli occhi si inumidivano. Era come se stessi per morire e stessi rivivendo tutta la mia vita in pochi secondi, ma, come differenza, c'era che invece dei miei sedici anni avevo davanti tutti i momenti passati con Luhan.
Mossa da qualche strana forza, feci qualche passo avanti, i piedi pesanti come cemento; lentamente, passo dopo passo, iniziai a correre, cercando di raggiungerlo: sembrava allontanarsi da me ad ogni passo. Gridai il suo nome, prima che il buio totale mi riavvolgesse completamente.
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Mi svegliai di soprassalto, spalancando gli occhi e stringendo ossessivamente le dita sulle lenzuola leggere attaccate alla mia pelle sudata.
"Ehi, Kels, calma." due mani calde si posarono sulle mie e solo il quel momento notai mio fratello, accovacciato davanti a me. Era preoccupato, glielo si leggeva in faccia.
"L'ho sognato, Kris. L'ho sognato, e se n'è andato." mormorai con voce disperata mentre mi stringeva dolcemente a sé, accarezzandomi i capelli e posando le labbra sulla mia fronte.
"Non se n'è andato invece, c'è ancora una speranza Kels." mi rispose lui, allontanandomi leggermente da sé per guardarmi in volto. I suoi occhi erano sicuri, e riuscirono a calmarmi leggermente.
Annuii appena, prendendo un respiro profondo. "Che ore sono?" domandai poi, cercando con lo sguardo un orologio o il mio telefono.
Scosse la testa, con un piccolo sorriso triste. "Sono già qui."
Deglutii alle sue parole, e cercai di nascondere la mia insicurezza mentre mi alzavo dal letto e percorrevo il corridoio verso l'entrata.
Attraverso i due vetri accanto alla porta riuscii ad intravedere una figura massiccia, in ombra, e subito dopo un forte bussare. Mi bloccai a pochi metri di distanza, fissando la porta con sguardo vuoto. Aprendola, sarebbero successe tante cose. Quello che mi spaventava, però, era sapere esattamente come sarebbe finita tutta quella situazione. Il mio corpo era di nuovo bloccato, come se si rifiutasse per primo di farlo.
Ingenua com'ero non potei neanche lontanamente immaginare ciò che invece mi sarei trovata di fronte.

Kris si parò davanti a me, lanciandomi un piccolo sguardo e facendo per aprire la porta.
Lasciai fuoriuscire un respiro tremante, mentre la figura che avevo intravisto diventavano tre. Davanti a noi c'era mio padre, e dietro di lui due uomini che mai avevo visto. Supposi fossero anche loro parte del laboratorio.
"Kris." salutò quindi, facendo un cenno al ragazzo davanti a me che non rispose. Poi, il suo sguardo si spostò su di me, e istintivamente indietreggiai.
"Papà, non puoi.." dissi quindi, la voce roca a causa del pianto di qualche ora prima e dal risveglio appena avuto. Non riuscivo a vedermi, ma potei immaginare lo sguardo implorante dipinto nei miei occhi.
"Posso, invece. Non permetterò che qualcun altro si faccia male." ripeté ancora, utilizzando la stessa frase di quasi una settimana prima.
Scossi la testa, aggrottando la fronte. "Tu-tu non capisci! Così mi fai ancora più male, gli fai male! Mi stai portando via l'unico sprazzo di felicità dopo la morte della mamma, classificandolo come un qualcosa che tu non puoi neanche lontanamente immaginare!" gridai, stringendo i pugni lungo i fianchi. "Tu credi che siano tutti uguali, credi che abbiano tutti gli stessi istinti ribelli e nessuna percezione del pericolo. Ma non è così! Tu non c'eri in questi mesi, te ne sei andato senza neanche un minimo di preavviso e mi hai lasciato a prendermi cura di un ragazzo, papà, un ragazzo senza famiglia, abbandonato da tutti, che tu stesso volevi salvare. Tutto questo è.. contraddittorio. E ingiusto." la mia voce andava mano a mano abbassandosi, fino a spezzarsi completamente sulle ultime parole. I suoi occhi erano impenetrabili, era come se non avesse neanche sentito le mie parole, e credevo che nulla potesse far più male di tutto quello.
Poi feci un passo avanti, e lì lo vidi. Aveva delle spesse catene alle mani, e i due uomini lo tenevano per le spalle, come se fosse un carcerato. I suoi occhi erano vitrei e mi fissavano, senza però vedermi veramente, come se non mi riconoscesse.
Mi portai una mano alla bocca, cercando di andare verso di lui e venendo tuttavia bloccata dalle mani di mio padre, che mi tenevano indietro. Lo guardai, la rabbia e la disperazione dipinte su tutto il mio volto. "Luhan.." lo chiamai, senza però ricevere alcuna risposta. "Voi.. che diavolo gli avete fatto? Eh?" sbottai allora, liberandomi dalla presa dell'uomo di fronte a me e correndo verso di lui. Gli presi il viso tra le mani e lo scossi leggermente, abbassandolo verso il mio. "Luhan" lo chiamai ancora, e poi di nuovo. "Luhan, guardami, sono Kelsey. Sono Kelsey" continuai a ripetere, sussurrando le parole e cercando di ricevere un qualsiasi segno da parte sua.
"Non sa più chi sei, Kelsey." la voce grave di mio padre mi fece gelare il sangue nelle vene. Le mie mani caddero lungo i miei fianchi mentre abbassavo lo sguardo.
Non sa più chi sono. Non si ricorda di me.
"Gli abbiamo resettato la memoria. Non ricorda nulla, né della sua famiglia, né del suo passato, né di te. Sa solo il suo nome, e risponde solo ai miei comandi. È diventato una specie di robot umano." mi girai, odiando quel mezzo sorriso che andava dipingendosi sulla faccia di quello che non riuscivo più a considerare parte della mia famiglia.
"Perché le stai facendo questo papà? È tua figlia, non dovresti comportarti come un mostro con lei.." intervenne allora Kris, e io rimasi zitta. Fissavo il vuoto, non riuscendo più a trovare un senso a nulla di tutto quello che stava accadendo. Nella mia mente continuavano a ripetersi le stesse parole, come un mantra.
Non si ricorda di me.
Rimasi immobile per quelle che mi parvero ore, guardando la mia famiglia cadere a pezzi, così come i miei sedici anni.
Era tutta una menzogna fin dall'inizio?
Ascoltavo distrattamente le parole che volavano nell'aria, senza sentirle davvero o afferrarne il reale significato. Ero come.. pietra. Una pietra vuota e fredda, immobile.
Rimasi immobile quando, senza più voltarsi o dirmi una sola parola, Luhan seguì mio padre verso un furgone nero. Rimasi immobile anche quando le porte si richiusero dietro la sua figura esile, tagliando anche quel debole filo che continuava ad unirci, e distruggendo le ultime speranze che continuavo, nonostante tutto, ad avere.
Era tutto finito. Niente seconde possibilità, niente modi per cambiare il passato.
Era tutto, completamente, finito.

All monsters are human. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora