30 seconda parte

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THOMAS

I versi monosillabici provocati dal bubolare di un gufo fuori dalla finestra avrebbe dovuto infastidirlo.

Invece no.

Al contrario lo faceva sentire meno solo in quella stanza buia dove c'era ancora la sensazione di Jackson e di quello che, per un secondo, si erano concessi.

Sospirò, chiudendo gli occhi stanchi con le braccia piegate dietro la testa: non aveva avuto nemmeno la forza di farsi una doccia. Si era spogliato e si era infilato sotto il piumone aspettandosi di cadere in pochi secondi nel sonno più profondo.

Ma si era sbagliato.

Erano passate due ore e il sonno tardava ad arrivare.

Trattenne il respiro e tese l'orecchio: nessun suono proveniva dalla stanza accanto, nessun movimento. Niente di niente. Solo silenzio.

Sospirò.

Anche Jackson era sveglio come lui, con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto, respirando piano per non fare rumore?

Scacciò il ricordo della delusione dei suoi occhi verdi quando gli aveva augurato la buonanotte. Lentamente si mise a sedere sul materasso, facendo leva sugli addominali. Si portò una mano all'altezza del cuore, tremando e sforzandosi di deglutire per scacciare l'ansia. Non riusciva a stare sdraiato, doveva alzarsi, doveva fare qualcosa per distrarsi e non pensare.

Scese dal letto e s'infilò la felpa, tirando il cappuccio sulla testa. Aprì la porta cercando di non farla scricchiolare sui cardini e attraversò il corridoio con i piedi nudi sul parquet freddo.

Trattenne il respiro, fermandosi davanti alla porta con il nome JACKSON appeso fuori: sfiorò il legno intagliato con l'indice e raddrizzò la lettera A che era appena più storta delle altre.

Jackson era dietro quel sottile strato.

Bastava abbassare la maniglia, entrare e stendersi sul letto accanto a lui, stringersi al suo corpo, lasciarsi abbracciare e perdersi nel suo calore, ignorare il passato e il dolore e lasciarsi curare. Sentì un calore bruciante divampargli dentro, al centro dello stomaco e posò la fronte contro la porta, la mano a palmo aperto piantata contro il legno.

Aveva bisogno di lui.

Aveva bisogno di Jackson per affrontare la sua vita e dimenticare il passato.

Aveva bisogno di Jackson per essere felice, per respirare, per dormire e per vivere.

E lui era lì.

Ma era tutto troppo difficile e faceva paura il ricordo di ciò che era successo e che sarebbe potuto capitare di nuovo. Faceva paura la consapevolezza che Thomas, per Jackson, sarebbe stato come le sbarre di una prigione e lui meritava di volare in alto perché c'erano tante mete da esplorare, tante tappe da conquistare.

Continuava a pensare alle parole di Logan.

«Puoi imparare anche tu a volare. Non devi essere costretto a restare con i piedi sul cemento. Puoi spalancare le ali e volare con lui, insieme. C'è spazio per tutti e due, lassù.»

Ma dove poteva andare Thomas Reed?

Era qualcuno solo grazie al suo migliore amico, aveva un lavoro degno di essere chiamato tale perché Noah gli aveva donato la possibilità di riscattarsi e di non morire schiavo della monotonia. Se avesse aperto le ali, ammesso che non si fossero già spezzate sotto il peso delle macerie causate dal crollo dei sogni infranti, dove poteva volare?

In alto, sì.

Ma a volare troppo in alto, come narra il mito di Icaro, si rischia di avvicinarsi pericolosamente al sole.

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