Capitolo 48

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Camila's pov

«Qui è un gran casino.» sospirai. L'aria era umida, la nebbia si diradava piano piano lasciando intravedere in lontananza alcuni alberi, foglie cadute e mai spazzate, persone riunite vicino ai loro parenti ormai troppo lontani per poter essere abbracciati. «Non so cosa devo fare. Emily ha comprato i biglietti per Londra, e io non le ho detto niente, né se ci andavo, oppure no. Lauren dice di amarmi, ma non riesce a lasciare andare Marlene e io mi sento incompleta, forse anche un po' disperata.» ridacchiai ironicamente alzando lo sguardo al cielo: era una mattina nuvolosa e grigia. Il vento impetuoso trascinava via qualsiasi cosa gli si ponesse davanti e per un secondo desiderai di essere trasportata nell'aria, ma i miei piedi restavano sempre incollati al terreno. «Dimmelo tu cosa devo fare.» rivolsi uno sguardo alla lapide con il nome di mia sorella inciso sopra. Silenzio. «Non dici niente? Certo che no. Per te è facile. Sei morta. Sei un'egoista Lexie, cazzo, mi hai lasciata da sola ad affrontare tutto questo! Avanti parla! Dimmi qualcosa maledizione!» esasperata dalla situazione tirai un calcio alla lapide di fronte a me, subito dopo cacciai un urlo di dolore e afferrai la scarpa con la mano imprecando ad alta voce. «Ti ho già chiesto scusa per come ci siamo salutate e tu continui ad ignorarmi! E poi sappi che è colpa tua! Te la sei cercata! Sei andata a drogarti per cosa? Cosa pensavi di risolvere con delle pasticche, o quel che era?! Sei tu a dover chiedere scusa a me, eppure sono sempre io a sentirmi in colpa, a soffrire della tua perdita e a dover fronteggiare i problemi!» sbraitai arrabbiata puntando il dito contro quel blocco di marmo. Le persone presenti si erano voltate più volte verso di me, ma infine tutti avevano riabbassato la testa credendomi una pazza. «Hai sempre fatto così. La povera vittima della situazione, ero sempre io quella crudele! Ma non hai pensato alla mamma? Come credi che si sente? Come pensi che ci sentiamo tutti noi eh?! Vaffanculo, fanculo, fanculo!» continuai a scalciare contro la lapide, più il piede bruciava per il dolore, più forte tiravo i calci. Ero sopraffatta da una sensazione di rabbia, forse persino odio e la sentivo ribollire nelle vene, era come se qualcun si fosse impossessato del mio corpo, non controllavo più le mie azioni. E continuavo a colpire la lapide. «Ehi, ehi! Smettila, smettila!» qualcuno mi afferrò da dietro sollevandomi da terra e allontanandomi all'indietro. Due braccia forti e muscolose stringevano il mio busto, mentre io continuavo a scalcare contro l'aria e con i pugni chiusi tentavo di liberarmi dalla presa dello sconosciuto. «Lasciamo andare!» urlai ancora più arrabbiata, allorché l'uomo mi poggiò a terra ed io corsi di nuovo verso mia sorella, o quel che rimaneva di lei, ma le sue mani possenti bloccarono le mie spalle e mi voltò verso di lui. Era un ragazzo giovane, di bell'aspetto: capelli ricci castani, grandi occhi marroni e un corpo scolpito in ogni aspetto. «Adesso piantala ragazzina.» mi disse guardandomi negli occhi. Mi liberai dalla sua presa, lui tentò di afferrarmi di nuovo, ma alzai le mani in segno di resa e le incrociai al petto, allora lui si tranquillizzò e infilò le mani nelle tasche nel giubbotto beige. «Se tu sei il custode sappi che non hai nessun diritto di dirmi cosa fare. Quella è mia sorella e se fosse viva la prenderei a calci lo stesso, perciò non fa molta differenza.» lui rise appena e sollevò le spalle amichevolmente rispondendo che avrebbe fatto lo stesso. La sua affermazione mi confusa, mi misi sulla difensiva facendo un passo all'indietro e lo guardai storto chiedendo chi fosse. «Sono il rag...Ero il ragazzo di tua sorella» abbassò lo sguardo sui suoi stivali e respirò profondamente rilasciando una nuvoletta di aria fredda attorno a se. «Karl.» disse rialzando la resa e porgendomi la mano. «Tu devi essere Camila.» ancora non mi fidavo di quel tipo e alzai un sopracciglio diffidente  mantenendo le braccia incrociate. Unì le labbra in una linea dura, ma comprensiva e ritirò la mano nella tasca tirando fuori un pacchetto di sigarette. Ne portò una fra le labbra e l'accese, poi mi porse il pacchetto mezzo piano e fece uscire una sigaretta offrendomela. La presi ringraziandolo sotto voce.
«Amavo tua sorella e credo che lei amasse me.  Almeno è questo che mi ha detto prima di andarsene.» c'eravamo seduti su una panca fuori dal cimitero, entrambi immersi nelle proprio nuvolette di fumo. Lui stava seduto in mezzo, io sull'estremità della panca con le gambe accavallate. «L'hai vista quella sera? Insomma prima che morisse.» deglutii. Con mia mamma non avevamo mai parlato di quello che era successo a Lexie. Lei si era abbandonata dal dolore, io avevo preteso che non fosse mai esistita. «Si.» rilasciò andare il fumo, si confuse subito nell'aria gelida e poi riprese a parlare: «Piangeva a dirotto, urlava che aveva perso anche te e che ormai la sua vita era finita. Non sono riuscito a calmarla, per quanto ci abbia provato lei era fuori di se.» scuoteva leggermente la testa tenendola bassa. Fissavo davanti a me nella speranza che la nebbia di diradasse del tutto, ma invece diventava sempre più fitta. «Disse che mi amava, che amava anche te e che sarebbe tornata a casa per farsi perdonare.» pausa. «Non è mai arrivata.» si voltò dall'altra parte e si asciugò una lacrima, feci finta di non vedere e aspirai l'ultimo tiro della sigaretta, rilasciandola poi cadere sotto alla suola della scarpa. «Lo so che ti incolpi della sua morta, perché faccio lo stesso anch'io, ma non è colpa nostra, tantomeno sua. E' successo e noi dobbiamo andare avanti, è questo che lei vorrebbe: vederci felici.» strinse il bordo della panca con forza, le sue mani, che già avevano cambiato colore per il freddo, adesso assumevano una tonalità rossastra. Era un ragazzo finito, ecco cosa leggevo nei suoi occhi e per questo decantasse la felicità, non riusciva ad uscire dal tunnel nemmeno lui.
Fu in quel giorno che capii: ognuno di noi vive i propri drammi, ognuno di noi convive con il proprio dolore e solo da soli possiamo rialzarci, ma a volte abbiamo bisogno di qualcuno che ci tenga una mano.
«Mi ha parlato molto di te. Ricordo che era felice perché avevi trovato l'amore e quando ne parlava rideva sempre. Dammi retta ragazzina: ama prima che sia troppo tardi.» poi si alzò dalla panca e mise una mano sulla mia spalla stringendola con forza, un gesto intento a darmi coraggio. Sparì nella nebbia e da quel giorno non ho più sue notizie, non so che fine abbia fatto, dove sia adesso e se abbia davvero trovato la felicità, ma è a lui, ad un apparente estraneo, che devo ringraziare per avermi indirizzato sulla giusta strada. Restai seduta sula panca per svariate ore, vidi il sole sorgere e tramontare e poi tornai a casa, con la testa più leggera e le idee chiare.
Corsi a casa di Lauren  arrivai col fiatone, le gambe stanche, il cuore che batteva all'impazzata e suonai il campanello. Quando la porta si aprì le pregai di non dire niente, solo ascoltare.  «Ti resterò vicina, sia a te che a Marlene, l'aiuteremo a rimettersi in sesto, ma non posso perderti. Lauren abbiamo i giorni contati e io voglio viverli con te. Stare con qualcun altro sarebbe solo uno spreco di tempo, perché io amo te come non ho mai amato prima e ti amerò per sempre. Sei tu, sei la mia persona, la mia anima gemella e tutte quelle stronza dei film. Sei la mia lei.» sorrisi come un'ebete, mi sporsi in avanti per baciarla velocemente sulle labbra e tornai nella posizione di prima con le mani legate davanti a me e la speranza che il domani potesse essere migliore, insieme a lei. Schiuse le labbra per parlare, ma non uscì niente. Prese un bel respiro e chiuse gli occhi, e disse: «Camila, io domani mi sposo.»

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