Capitolo 10

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Mi svegliai di soprassalto infastidita da un rumore vagamente familiare. Aprii lentamente gli occhi, impiegai qualche secondo prima di realizzare che il rumore proveniva dal mio smartphone. Allungai il braccio per afferrarlo, ma improvvisamente sentii un peso ostacolarmi. Abbassai istintivamente lo sguardo e vidi Lauren distesa sopra il mio petto. Dalla sua bocca usciva un leggero sospiro che si tramutava in un debole ronfo. Sorrisi guardandola rilassata sopra il mio petto, sembrava così pura, con le palpebre serrata, le labbra schiuse, le guance arrossate e i capelli arruffati.
Il telefono continuava incessantemente a vibrare, sembrava una cosa urgente. Mi sporsi con difficoltà verso il tavolino, dovetti allungarmi al massimo per prenderlo, ma alla fine riuscii nel mio intento e appena lo presi in mano smise di vibrare. Sullo schermo si era accesa un'icona che indicava: 10 chiamate perse da mamma. Era la fine. Addio mondo crudele! Portai una mano sulla fronte e mi lasciai ricadere all'indietro. Richiamai il coraggio e chiamai mia madre. Prevedevo già una sgridata epica, una strigliata di capelli che non ti dimentichi più.
«Camila! Dov'eri finita?! Lo sai da quanto ti cerco?!» urlò in preda al panico. Allontanai il telefono dall'orecchio per non rischiare di restar sorda.
«Lo so mamma scusami, stavo facendo un progetto con la classe.» mordicchiai nervosamente le unghie e mi tirai i capelli ricaduti sulla fronte all'indietro.
«Vieni subito a casa! Dobbiamo parlare.» era arrivato il fatidico momento. Sospirai consapevole delle mie azioni e le assicurai che sarei arrivata in mezz'ora, poi attaccai.
Stringevo il telefono fra le mani quando il mio sguardo si posò sulla creatura poggiata sul mio ventre. Inclinai la testa sorridendo e prima che potesse svegliarsi le scattai silenziosamente una foto. Lo schermo non le rendeva giustizia, ma almeno avrei tenuto un ricordo di quel pomeriggio. La dondolai lentamente per un braccio e la svegliai con un caldo bacio sulla fronte. Lauren mugolò contrariata, ma le spiegai che dovevo tornare a casa velocemente. Lei si issò sui gomito, si stropicciò gli occhi e mi guardò nel suo stato di dormiveglia. «Che succede?» «Mia mamma, sai com'è.» scrollai le spalle.
Mi sentivo in imbarazzo a dire il vero. Lauren non aveva a che fare con questo genere di sgridate da anni, chissà dov'erano i suoi genitori. Ormai era una donna e non aveva bisogno della supervisione dei genitori. Ma io dovevo ancora compiere 18 anni, cosa che sarebbe successa a breve, ma vivevo sotto lo steso tetto di mia madre, perciò stavo alle sue regole.
«Ah certo ti riporto a casa.» si alzò dal divano barcollante, andò a sbattere contro il tavolino, ma fortunatamente riuscì ad appoggiarsi sul mobile accanto a lei e camminò adeguatamente fino al bagno, dove si sciacquò la faccia con acqua fredda. Quando tornò indietro sembrava molto più attiva, si era già vestita ed era pronta ad andare. Quella donna secondo me era posseduta. Facevo sesso con Satana!
Passando dal corridoio che portava in garage notai delle foto appese alle pareti che prima non avevo visto, ero occupata a fare altro. La maggior parte ritraevano Lauren, ma in una foto notai una donna avvinghiata a lei, era una foto scattata in un campo verde, le case  lontane alle loro spalle faceva da paesaggio. Era una bella immagine, assomigliava tanto ad una di quelle foto scattate in un tipico momento felice al quale seguono molto altri. «Chi è lei?» indicai la donna con l'indice. I colori erano sbiaditi, chissà quanto tempo fa era stata scattata. «Diamine non puoi proprio fare a meno di farti i cavoli tuoi!» Lauren portò stancata le mani sui fianchi e sospirò irritata dalla mia curiosità. Feci un passo indietro e alzai le mani in alto, dichiarando che non ero più tanto interessata a saperlo.
Salimmo in auto. Fu un viaggio abbastanza silenzioso, Lauren si era coperta gli occhi con gli occhiali, da quando le avevo posto quella domanda il suo atteggiamento era radicalmente cambiato. Mi sembrava di essere seduta in classe, ero nei panni dello studente terrorizzato. Mi ero immischiata in una cosa complicata, troppo complicata. Scossi la testa senza speranza e appoggiai la testa contro il finestrino, fissando la strada scorrere sotto di noi.
«Qualcosa non va?» avrei evitato di tirare in ballo l'argomento, ma Lauren me lo servì su un piatto d'argento. Mi girai verso di lei stupita dalla sua stessa domanda e alzai platealmente frustata le braccia in aria. «Non lo so Lauren! C'è qualcosa che non va?! No perché io non vorrei essere seccante, ma cazzo sei tu che mi costringi ad esserlo.» feci una pausa nella quale aspettai una sua risposta ma non arrivò. La donna continuò a guidare, aveva gli occhi puntati sulla strada e si nascondeva nel suo silenzio. «Prima scopiamo, poi decido che è meglio allontanarci e prendo le distanze, poi scopiamo di nuovo e quando le cose sembrano essersi stabilizzate ritorni ad essere la stronza di sempre.» respira profondamente. La mia testa stava scoppiando, era come se qualcuno avesse disegnato uno scarabocchio senza senso su un foglio e l'avesse posizionato al posto del mio cervello. C'erano linee, cerchi, punti a casa, un caos! «Devi dimostrare che comandi tu? Che non ti innamorerai mai di me e nemmeno io devo farlo?! Ho capito! L'ho capito dannazione!» diedi una pedata al cruscotto davanti a me e macchiai la plastica nera con l'impronta della suola. «Si.» rispose lei quando arrivammo praticamente davanti cada mia. «Sei seccante.» si girò verso di me, non tolse gli occhiali. ma riuscii a sentire il freddo anche da dietro le lenti nere. Nascondevano il suo sguardo, non la sua anima. Costantemente gelida. Annuii lentamente e non dissi nient'altro, quando si fermò davanti a casa mia scesi dall'auto di fretta e non mi voltai indietro.
Entrai in casa, chiusi il portone alle spalle e respirai. Era incredibile quando piacere provocasse in me e al contempo alzasse un fuoco d'ira. «Camila! Vieni subito qui!» la voce di mia madre mi risvegliò dai miei pensieri.
Oh giusto, ora dovevo affrontare lei. Non bastava Lauren. Non basta mai. Quando arrivi al limite, si presentano subito altri problemi. È una corsa continua e se ti fermi a riprendere fiato, è la volta buona che qualcuno arriva in corsa e ti butta a terra.   Sbam! Una facciata nel fango!
Mi diressi verso la cucina già pronta a scusarmi in dieci lingue diverse, quando svoltai l'angolo e trovai mia madre in piedi contro il frigo. La sua faccia era attraversata da un cipiglio, le labbra tese in una linea dure ineffabile.
Dei capelli blu risaltarono alla mia vista. Solito giubbotto di jeans tatuaggi su tutto il corpo, scarpe pesanti  e slacciate. Il tempo passava ma non cambiava mai niente in lei. La ragazza si voltò verso di me, i suoi grandi occhi grigi catturarono attentamente quel momento, poi sorrise fraternamente e mi salutò come se fosse rientrata dopo una settimana di vacanza, mentre quelle era la prima volta che rivedevo mia sorella dopo 5 anni.
«Ciao Kaki.» non ricordavo il suono della sua voce, eppure bastò una semplice frase per riportare alla memoria i momenti passati a litigare per scegliere il taglio di capelli adatto da fare alle barbie. O le corse la domenica mattina, chi arrivava prima in giardino saliva sopra la casa sull'albero, la quale non era abbastanza larga per tutte e due, così solo una di noi due era tanto fortunata da poterci giocare. Gli scherzi in classe, le matite rubate, i segreti confidati sotto le coperte, le storie di paura raccontate davanti alla cioccolata calda.
Quella era mia sorella.
Era.
«Lexie?»

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