Capitolo 24

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Camila's pov

Spensi velocemente il telefono e lo appoggiai lontano da me, dove neanche le minacce di Lauren potevano arrivare. Mi vestii in fretta e furia, volevo lasciare l'appartamento prima di scoprire cosa era realmente successo la scorsa notte, ma mentre allacciavo le scarpe Emily sbucò dalla porta dietro di me e le sue mani furono subito sopra le mie spalle. «Buongiorno.» mi diede un leggero bacio sulla guancia e il suo sorriso malizioso lasciava intendere ciò che si celava dietro. Non c'era bisogno di fare domande. La sua spontaneità, il modo in cui le sue mani scorrevano sulle mie spalle aprendosi sulla schiena, il bacio lento e puro che aveva lasciato sul mio volto, erano tutti particolari frivoli, ma non per me. Emily non si era mai spinta tanto in là, nonostante le sue mani cercassero spesso un contatto, il più delle volte le ritirava nelle tasche, senza nemmeno sfiorarmi. Quella sicurezza era facilmente riconoscibile. Io l'acquisivo sempre dopo una notte di sesso. «Vuoi del caffè?» la sua figura si spostò al centro della stanza, i calzini rossi, alti fino al ginocchio, furono la prima cosa a saltare all'occhio, seguiti dalla lunga felpa di lana blu. Le attribuivano un aspetto buffo, quasi natalizio in fondo Emily era fatta così. I colori allegri riempivano la sua vita, perché diciamolo, la sua era una bella vita. La conoscevo da qualche settimana e tutto quello che avevo sentito su di lei erano un mucchio di storie felici, una famiglia perfetta, benestante, degli amici sempre presenti, una carriera già designata, un passato intatto, nessuna macchia, o ricordo pesante, solo bei momenti. Poteva permettersela la felicità ed era un lusso che non spettava a molti. «Ah no, niente caffè. A dire il vero devo scappare.» finii di allacciarmi le scarpe, cercai con lo sguardo la giacca nera che ero sicura di aver posato sopra la poltrona del salotto, ma invece la trovai a terra sul tappeto colorato. «Come? Già te ne vai?» lo chiese con un tono dispiaciuto e anche un po' confuso, evitai il suo guardo atterrito e avanzai verso la porta. Tenevo le mani nella tasche posteriori dei jeans, il capo basso e non la sfiorai nemmeno per sbaglio. La superai senza guardarla, o toccarla e mi ritrovai con le spalle alla porta e la mano sulla maniglia. «Purtroppo si. Mio padre è appena arrivato in città. Non lo vedo da tempo e voglio andare a salutarlo.» accennai ad un sorriso malinconico e notai che la sua voce cambiò all'istante. Aveva recuperato la speranza di non essere lei il problema, o la notte che avevamo passato assieme, ma imprevisti di altro genere. «Ok, allora ci vediamo lunedì in classe.» si avvicinò pericolosamente, i suoi occhi lampeggiavano di una strana luce, sapevo che stava per baciarmi e prima che ci riuscisse andai dietro l'anta di legno. La salutai frettolosamente e scappai giù per le scale. Arrivai in fondo senza fiato, non correvo così tanto dall'ultima corsa scolastica, avvenuta in quinta elementare. Aprii il pesante portone di vetro e mi ritrovai in sobborghi sconosciuti. La strada principale si allargava sui negozi, le caffetterie erano così tante da avere l'imbarazzo della scelta, i locali non sembravano molto frequentati. Chiesi informazioni a un passante per tornare verso la città e la donna, infagottata nel giubbotto giallo canarino, mi disse che, se fossi passata dall'interno, a piedi avrei impiegato più o meno 20 minuti. Mi incamminai verso la strada sulla mia destra. Faceva freddo, tirava un vento burrascoso, nonostante il sole si elevasse vanitoso in cielo. Camminavo con le mani nelle tasche del giubbotto. ritirai le spalle contro il collo per farmi caldo e accesi una sigaretta. In fondo alla strada vedevo i grattacieli erigersi colossali sulla città. Schiacciai uno di quei giganti con il pollice e l'indice, poi espirai il fumo fra la fessura delle dita e guardai l'edificio annebbiarsi piano piano.
«Hai bisogno di un passaggio?» mi voltai di scatto, portai le due dita sul filtro della sigaretta e scrollai le spalle per scacciare via il freddo entrato dentro al colletto del giubbotto. «Lauren.» aspirai, stavolta con più frustrazione e mi appoggiai contro un palo della luce. «Che ci fai tu qui?» una nuvoletta di fumo si intromise fra me e la mia interlocutrice. «Sono passata a prenderti. Pensavi che una notte di follia con un'insulsa ragazzina mi spaventasse? CI vuole molto di più Camila.» indossava dei guanti marroni che le coprivano la mano fino al polso, dandole un'aria elegante. Una sciarpa nera le fasciava il collo, il mento si appoggiava delicatamente sopra la lana, adesso che era entrata dell'aria fredda dentro l'auto. «Mi hai seguita?» chiesi raccapricciata. Non mi sorprendeva il fatto che Lauren mi controllasse da tutta la notte, lei era una donna perversa, una bambina viziata alla quale non puoi rubare il giocattolo altrimenti si mette a fare le bizze per riaverlo. «Vuoi salire o no? Sto congelando.» si levò gli occhiali neri dalla faccia, scoprì il suo sguardo magnetico, che quella mattina aveva qualcosa di argenteo. Deglutii malamente e calpestai la sigaretta con la suola della scarpa, poi aggirai l'auto e aprii la portiera. «Non che avessi altra scelta.» precisai sarcastica e un sorrisetto si allargò sul volto di Lauren. Spinse l'acceleratore e la macchina schizzò veloce lungo la strada. La sua mano scivolò improvvisamente in mezzo alla mie gambe, mi contrassi contro il sedile ed emisi, involontariamente, un suono strozzato e acuto. Le sue dita spingevano contro il tessuto di jeans, fremevano per toccarmi e il mio corpo bramava per essere posseduto da lei. «Che c'è? Ti sei stancata del tuo amico? Quello di ieri sera?» Fissavo il paesaggio fuori dal finestrino e pretendevo che la sua mano non si trovasse al centro della mia intimità, se avessi ascoltato gli istinti del mio corpo avrei perso il controllo in pochi secondi. «Quello è il professor Vanosten, insegna storia dell'arte ed è gay.» mi voltai di scatto verso di lei. Lo sapevo. Aveva messo su quel teatrino per farmi ingelosire, il suo unico scopo era di farmi perdere le staffe, maledetta. «Vedi Camila: sono sempre un passo avanti a te.» sganciò con abilità il bottone dei miei pantaloni e fece scivolare la mano sopra le mutandine. «Non puoi fermarmi e non mi interessa se hai scopato con quella povera ragazza, perché lo so... tu appartieni a me e questo nessuno lo cambierà mai.» spostò le mutande e le sue dita entrarono a contatto con il mio sesso. Portai la mano, chiusa a pugno, alla bocca e la morsi con forza per non gemere. «Ripeti Camila: tu appartieni a me.» le due dita si muovevano lungo la mia intimità, ma senza entrare dentro di me. Era una tortura lunga e sapevo che per ottenere ciò di cui avevo bisogno, dovevo soddisfare la sua richiesta. «Appartengo a te.» mormorai con un filo di voce. Le sue dita scivolarono lentamente dentro di me e... «Non ho sentito.» sussurrò maliziosa, girando attorno al mio sesso con accurata lentezza. «Appartengo a te!» urlai voltandomi di scatto e per un secondo i nostri occhi si incontrarono e le sue dita entrarono con forza dentro di me, facendomi saltare sul sedile. «Brava. Preparati, perché quando fai la cattiva riceverai in cambio ciò che ti spetta.» si leccò le labbra e infilò dentro di me un altro dito, lasciandomi a bocca aperta e senza fiato.
Quello era solo l'inizio.

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