31 Parole non dette

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Tander era seduto immobile sulla sua scomoda sedia di metallo. Abbassava e alzava il petto mentre respirava in modo impercettibile. Non sentiva alcun bisogno di muoversi.

Non sentiva il bisogno di alzarsi e ribellarsi. Né di fuggire via.

Ciò che realmente gli importava era seduto lì, affianco a lui.

Non ebbe bisogno di voltarsi per vederla meglio.

Percepiva con chiarezza la presenza di Akiva a un metro e mezzo da lui.

Il braccio che aveva steso lungo il fianco e che penzolava dalla sedia era percorso da un'elettricità anormale. Sentiva i muscoli e in nervi in fibrillazione, mentre si allungavano in modo inconsapevole verso il braccio di Akiva, che si trovava nella stessa posizione.

Tander sentiva le dita della sua mano tremare, mentre cercava di tenerle ferme. Voleva disperatamente stingere la mano di Akiva nella sua, ma inutile dire che le guardie dietro di loro li avrebbero divisi al minimo accenno.

Eppure, avvertiva la tensione che attanagliava i loro corpi: partiva dalle mani, come una ragnatela. Dei fili invisibili ed estremamente resistenti, che venivano tessuti, che si intrecciavano e arrotolavano attorno alle loro dita e li legava come le radici si legano alla terra. Come la gravità lega gli uomini. Come l'amore lega due anime.

La signora Bennett continuava a parlare, ma le sue parole gli giungevano lontane, ovattate, a tratti insensate.

Non contava più niente, ormai.

Non che Tander non avesse più voglia di lottare, anzi. Però riusciva ad avvertire quello che le persone in quella stanza provavano. Molte volevano soltanto vederli morti. Perché erano dei traditori. A loro non importava quali fossero i motivi per cui si trovavano in quella situazione.

A loro non importava che cosa avessero dovuto passare.

A loro non importava di quello che era accaduto realmente in Superficie.

Volevano chiudere quella storia. Eliminare ogni prova di quello che era effettivamente accaduto.

La Superficie era un problema che non li riguardava più dal momento in cui avevano scelto di rifugiarsi sotto terra.

E questo lo faceva incazzare più di quanto immaginasse. Perché? Perché un tempo anche lui la pensava come loro. Anche lui voleva vivere la sua vita in tranquillità, per quanto potesse riuscirci.

Finché non aveva conosciuto un mondo nuovo. Finché non aveva conosciuto il mondo. Finché non aveva conosciuto il significato della vera amicizia, di ciò che significa famiglia. Di quello che significa amore.

Quando la signora Bennett finì di parlare, il vicepresidente chiese chi del Concilio fosse favorevole alla condanna prevista dalla legge. Quattro di loro alzarono le mani. La maggioranza aveva vinto.

Il Presidente si portò una mano al volto, stropicciandoselo, pregando che qualcuno potesse svegliarlo in tempo da quell'incubo. Che qualcuno riuscisse a impedirgli di emanare la sentenza definitiva.

Perché lui sapeva che quello che stava accadendo non era giusto. E sapeva fin troppo bene che i ragazzi che aveva di fronte agli occhi erano la loro via di fuga. Quegli stessi ragazzi malconci, disertori, che si erano uniti ai Radiati, che avevano combattuto con loro, che erano stati condannati a morte: quegli stessi ragazzi avrebbero potuti salvarli dal rimanere chiusi nel Sito, finché la loro casa non sarebbe implosa su sé stessa trasformandosi in una tomba.

Asimov sapeva fin troppo bene che prima o poi sarebbe accaduto. Peccato però che non sapeva come salvarli tutti senza che la notizia scatenasse il panico, aggravando la situazione.

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