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Naja

La porta sbatte con violenza contro le lamiere di ferro e cinque uomini di corporatura minuta si avvicinano a passo svelto. Hanno la carnagione olivastra e sono tutti armati. Rashid fa appena in tempo a nascondersi e noi
ragazze indossiamo lo chador.

"Abbassa subito lo sguardo," mi dice uno di loro, mentre mi strappa di dosso lo chador svelando i miei lunghi capelli castani e gli abiti occidentali.

Mantengo la testa bassa e resto in silenzio, ma avverto i loro sguardi percorrermi il corpo e la cosa mi terrorizza.

"Una mulatta con pantaloni occidentali. Sei cristiana, giusto?" mi chiede lo stesso.

"Sì, sono cristiana," gli rispondo, senza riuscire a nascondere una punta di orgoglio.

Per tutta risposta l'arabo mi colpisce allo stomaco con la canna del fucile. Mi piego in due per il dolore ma non oso replicare.

"Sei vuoi salvarti dovrai abbandonare il tuo Dio," dice l'uomo avvicinandosi troppo alla mia faccia, tanto che riesco a sentire il cattivo odore del suo alito.

"A Bengasi diventerete tutte figlie di Allah e adesso mettiti lo chador e uscite fuori," sentenzia un altro delinquente, asciugandosi il sudore che gli scivola sul viso.

Rifletto sulle sue parole e sul fatto che Bengasi si trova sulla costa Libica. Questo significa che almeno ci avvicineremo ai punti di imbarco.

Prima di salire sul pick-up gli arabi chiudono a chiave la porta del capannone. Quanta cura per delle vecchie lamiere arrugginite... maledetti.
Maledetti. Rashid è in trappola!

Mi sento avvilita e l'atmosfera a bordo del veicolo non migliora il mio stato d'animo. Siamo sedute praticamente l'una sull'altra, così strette che riesco a sentire il borbottio dello stomaco di Abeba. Siamo affamate e
nervose, soprattutto Busara che credo sia arrivata al limite delle sue energie. È troppo giovane per tutto questo. La ragazzina ricomincia a piangere e mormora che è colpa delle sue stupide gambe se lei e la sorella
sono nei guai.  Cerchiamo di calmarla ma è tutto inutile.

"La zoppa dà fastidio," dice l'arabo al volante rivolgendosi all'altro delinquente. Ciò che succede dopo va oltre ogni mia possibile previsione.

Il pick-up si ferma, la ragazzina viene fatta scendere con la forza e le sue stampelle vengono gettate lontano. Busara si inginocchia sul terreno sabbioso e invoca pietà. Non le viene fatto del male ma viene lasciata lì.
Gli uomini tornano sul pick-up e ripartiamo abbandonandola nel deserto libico tra le urla della sorella che chiede inutilmente di scendere. È mostruoso!

Vorrei intervenire, ma Abeba mi dà una gomitata per farmi capire che non mi
conviene. Resto vigliaccamente in silenzio, sebbene la rabbia mi stia divorando.

Il viaggio prosegue accompagnato dal macabro lamento di Amina che mormora il nome della sorella.

Il pick-up si ferma quanto ormai è quasi buio. I due uomini ci fanno scendere con la forza e ci portano all'interno di un fabbricato abbandonato strattonandoci fino ad arrivare all'interno di un bagno; ci accoglie un
ambiente molto sporco ma fortunatamente l'acqua che scorre dai rubinetti sembra pulita.

"Lavatevi e indossate quelli," ordina uno degli arabi, indicandoci dei burka poggiati sul pavimento.

"Non indosserò mai il burka," sbotta Abeba. La sua reazione mi meraviglia e adesso temo le conseguenze.

L'uomo che porta i capelli legati in un codino le si avvicina senza parlare, ha un'espressione disturbata, sembra un matto; estrae un coltello dalla tasca dei pantaloni e, senza esitare, ferisce Amina al viso. Urliamo tutte per il gesto violento e per la freddezza dell'esecuzione.

"Non si disubbidisce a un figlio di Allah. Imparate la prima lezione," mormora l'arabo e finalmente ci lasciano sole.

Mi avvicino ad Abeba per aiutarla ma lei si allontana.

"Naja, i gesti di umanità sono inutili tra di noi. Affezionarsi potrebbe solo aumentare la nostra sofferenza," mi dice, guardando Amina che ancora piange per sua sorella.

Con un cenno della testa acconsento alle sue parole, mi svesto e mi avvicino alle docce. Bevo con avidità l'acqua che scorre dalle docce e che mi scivola addosso; mi illudo che l'acqua fredda possa lavarmi di dosso l'angoscia che
provo in questo momento, ma quando Abeba mi porge il burka mi sento peggio. Trovo assurdo che la lettura distorta dei testi religiosi abbia trasformato il velo che nel 1800 indossavano le donne dei ceti sociali agiati in un simbolo di sottomissione... eppure è così!

Indossiamo in silenzio l'umiliate indumento che ci consente di guardare solo in avanti attraverso la rete rettangolare cucita all'altezza degli occhi. Poco dopo sentiamo dei colpi decisi provenienti dalla minuta finestra in fondo alla stanza e quello che vediamo ci lascia sbalordite.

.......

Kira

Raggiungo la palestra privata del capitano. Fabrizio dovrebbe essere qui. La porta è socchiusa ed entro senza bussare. L'ambiente non è grande, ma è accogliente ed è reso luminoso dalla vetrata centrale e dai numerosi specchi sulle pareti. Fabrizio è intento a colpire un sacco da boxe appeso al soffitto, è a torno nudo e ascolta la musica con gli auricolari; mantiene un ritmo di allenamento molto intenso ed è talmente concentrato che non si
accorge del mio arrivo. Non lo interrompo e mi accomodo nel salottino all'ingresso; mentre aspetto che finisca mi diverto a guardare le numerose armi antiche agganciate sulla parete a destra. Una balestra di colore blu cobalto mi attrae particolarmente e allungo una mano con l'intenzione di toccarne i delicati intarsi in argento.

"Ferma!" urla con nervosismo, mentre cerca di riprendere fiato. "Non toccarla. È una balestra interamente in cristallo di quarzo, potrebbe
ustionarti."

Ritraggo immediatamente la mano e lo osservo. Non sembra per niente felice
di vedermi, anzi, ho l'impressione che la mia presenza lo infastidisca. Senza parlare mi avvicino all'uscita.

"Aspetta, Kira! Non andartene! Scusami, ero concentrato su altro. Stavo cercando di scaricare la tensione accumulata negli ultimi giorni."

"È colpa di mio padre?" gli chiedo senza tergiversare.

Lui resta in silenzio per qualche attimo e, intanto, si sfila i guantoni da boxe e si asciuga il sudore. Vederlo a torso nudo mi crea imbarazzo e, istintivamente, afferro la maglietta sul divano e gliela porgo.

"Va bene, indosso la maglietta, principessa," mi schernisce, "comunque tuo padre non c'entra. Certo, i suoi modi mi irritano, ma, in fondo, credo che sia solo geloso di sua figlia. Lo capisco. In verità, la mia tensione nasce
da altro. Credo che l'avventura che abbiamo vissuto insieme abbia riacceso il mio desiderio di sapere chi sono davvero." Si interrompe e guarda verso il mare. "Kira, ti confido che non ricordo nulla della mia infanzia, della
mia adolescenza e ignoro tanto altro. I miei ricordi partono dal giorno in cui sono diventato il capitano di Maree. Gli esperti dicono che si tratta di un'amnesia che potrebbe svanire da un momento all'altro, eppure sono già
trascorsi diversi anni."

Resto senza parole. Finalmente capisco la sua riservatezza.

"Fabrizio, purtroppo non so come aiutarti, ma ti prometto che almeno chiederò a mio padre di smetterla con i suoi assurdi pregiudizi," mormoro avvicinandomi a lui.

"Non mi preoccupa affatto tuo padre. Qualunque cosa possa dire o fare non mi
allontanerà da te. La passione mi offrirà il potere e i mezzi per restarti accanto," mi dice sorridendo.

"Ancora una citazione di William Shakespeare. Romeo e Giulietta, vero?"

"Sì, è lui. Conosco tutte le sue opere ma non ricordo dove e quando le ho lette," mi dice; quindi, si immobilizza e mi guarda con insistenza la spalla destra. "Kira, cos'è quello?" 

"Di che parli?"

"Guardati allo specchio. Sulla spalla hai un nuovo tatuaggio."

Resto allibita nel vedere il nuovo disegno che, rispetto ai precedenti, non ha nulla di fiabesco. Si tratta di un'inquietante bandiera nera in stile piratesco.

"Che diavolo significa?" mormoro atterrita, ma nessuno dei due riesce a fare ipotesi e restiamo in silenzio a riflettere.

RR1

DARK STAR 2 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora