Capitolo 4

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Stavo camminando lungo il corridoio di quella enorme casa. Ero distratta. Sola. Avevo perso Louis di vista e non riuscivo a trovarlo. L'idea di stare sola non mi allettava un granchè, ma non lo trovavo in nessun posto, era come sparito nel nulla.

Senti la mia faccia bagnata, ancor prima di rendermene conto, alzai gli occhi e una ragazza bionda mi aveva rovesciato il suo drink in faccia. Le sue amiche ridevano dietro di lei. Quest'ultima mi guardava con sguardo di sfida. Ma chi è questa ora?!

"Prima uccidi i tuoi genitori e dopo viene a divertiti, ma non ti fai schifo!?" sputò con odio la ragazza di cui sapevo solo il colore di capelli. Reagisci. Ecco tornata la mia vocina interiore. Ma io non riuscivo a reagire, io ero troppo debole per riuscire a farlo.

Mi bruciavano gli occhi e mi tremavano le gambe, non meritavo tutto quell'odio. Forse sì, ma perchè non potevo passare una serata tranquilla?

Non dovrei essere qui, a questa festa, in questa casa.

Mi guardai intorno e notai di essere al centro dell'attenzione. Tutti ridevano di me, tutti mi additavano. Tutti mi gridavano 'Abby l'assassina'. Tutti tranne un paio di occhi azzurri, che mi guardavano con pietá. Una lacrima rigò il mio viso. Dovevo andare via da lì prima di incominciare a piangere a dirotto. Non volevo farmi vedere piangere.

Mi voltai e incominciai a correre, avevo bisogno di uscire da quella casa, di sfuggira da tutti quegli sguardi accusatori.

Uscii in fretta e l'aria fredda della sera mi investì in pieno viso. Correvo verso casa. Avevo bisogno della mia lametta. Di sfuggire a quel dolore. Avevo bisogno di cercare una via di fuga. Non volevo pensare a tutto quello che era successo in quella maledetta casa. Mi facevano male i piedi e le cosce ma non avevo intenzione di fermarmi. Dovevo arrivare a casa, in fretta.

Certe parole ti rimangono incastrate tra le costole, i polmoni, nella gola e diventa difficile, poi, respirare.

La mia vita faceva schifo e lo sapevo. Sapevo di aver sbagliato e sapevo di dover pagare un prezzo. Ed il prezzo era stato bere un calice colmo del più crudele dei veleni: la solitudine.

Arrivai a casa, entrai e notai Theo seduto sul divano che guardava una partita. Si girò e mi guardò. Ero sconvolta, ma a lui non interessò, continuò a guardarsi la partita.

Un altro colpo al cuore, primo o poi morirò per infarto. Il mio cuore batteva così veloce che sembrava di averlo in gola. Salii le scale tolsi la giacca e corsi in bagno. Ecco finalmente adesso sto meglio. La lametta striscia lungo il mio polso. Adesso capisco di non aver bisogno di nessuno se non della mia amata lametta. Come si può amare qualcosa che si usa per farsi del male? Non ne ho idea, ma io ormai potevo contare solo su di lei. Sei tagli e mi sento bene. Pulisco il sangue e fascio le ferite. Metto il pigiama e mi corico.

Guardo la parete difronte a me. Tantissime foto la tappezzavano. Mi alzo e mi avvicino ad esse. Sono vecchie foto della vecchia me. Quella felice, spensierata, sana di mente, allegra. Adesso quella ragazza non esiste più o se esiste è nel profondo di me e non mi va di farla uscire. Non ho motivo di essere felice. Sono orfana. Ricordi felici tappezzano quella parte di muro. La vita concede rari momenti di felicitá. A volte solo pochi giorni o settimane. A volte anni. Tutto dipende dalla fortuna. Il ricordo di quei momenti non ci abbandona mai e si trasforma in un paese della memoria a cui cerchiamo inutilmente di fare ritorno per il resto della vita.

Non volevo pensare a tutto quello mi facevano male i ricordi. Mi facevano male i sorrisi in quelle foto. Mi faceva male guardare i volti dei miei genitorni e di Theo spensierati.

Le foto non le ho mai tolte. Fa male guardarle tutti i giorni è come ricevere un pugno in pancia, ogni minuto che passavo nella mia stanza. Non mi importava dovevo soffrire per quello che avevo fatto e questo era il modo migliore. Stavo facendo un bel lavoro, davvero. Non le toglierò mai da lì.

Avevo bisogno di ricordare, anche se faceva male.

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