Buongiorno! Come state? Visto che anche oggi sono riuscita a postare il capitolo? :) Fatemi sapere cosa ne pensate... anche le minacce per un nuovo capitolo SUBITO sono ben accette! :D Scherzi a parte, BUONA LETTURA!
Domenica, 16 giugno 1991 (Anna, 12 anni)
Era caldo quella domenica e ricordo di aver pregato mia mamma di farmi le due trecce ai lati della testa invece di quella unica centrale che cadeva sulla schiena, perché l'elastico mi prudeva tra le scapole, se mettevo solo la canottiera sotto la giacca.
«Ma sembrerai una bambina» aveva obiettato, consapevole della mia richiesta di un anno prima di essere trattata come un'adulta, perché non avevo più dieci anni.
Aver passato la soglia dei dieci, l'essere andata in prima media un anno prima di tutti gli altri della mia età, nella mia testa aveva sancito il momento in cui la mia infanzia era finita ed era cominciata quella che io definivo adolescenza, anche se il mio corpo non aveva ancora preso il passo con la mia testa. Basta giochi con le bambole e capanne costruite in cortile, almeno fin quando non mi chiudevo in una stanza da sola e mi concedevo qualche pomeriggio a rivivere i giochi che, in fondo, mi mancavano.
Ricordo di essermi guardata allo specchio e di aver valutato attentamente la situazione, alla luce di quel commento. Alla fine avevo deciso che non avrei passato un'altra domenica a cercare di grattarmi la schiena e tenermi con una sola mano alla vita di papà. Pazienza se per quel giorno fossi tornata bambina, gli altri mi avrebbero trattata come sempre anche se portavo le trecce.
Arrivati alla piazzetta che era il nostro punto di ritrovo, avevo subito notato che c'era qualcosa di diverso, quella moto bianca e verde che non aveva niente a che vedere con quelle scure e grosse che ero abituata ad avere attorno di solito. Era una moto da corsa, di quelle che mio papà mi aveva portato qualche volta a vedere in pista. Era bella da togliere il fiato, come colui che ci era seduto sopra.
Ero scesa dalla moto di mio padre e avevo ammirato ogni dettaglio di quella carena perfetta che sembrava disegnata per andare veloce come il vento.
«A quanto arrivi con questa?» Avevo chiesto ingenuamente.
Marco si era tolto il casco e aveva ghignato come se avessi appena raccontato una barzelletta.
«E tu che ne sai di quanto va una moto? Sei solo una bambina» mi aveva risposto con quell'aria di sufficienza e il sorriso strafottente.
Avevo abbassato lo sguardo e fissato la punta delle scarpe, rossa in volto e completamente imbarazzata. Era la prima volta che mi sentivo così fuori posto per una domanda che avevo fatto. Avevo sentito il cuore stringersi nel petto e la voglia assurda di scappare via piangendo. Ma non l'avevo fatto perché, anche se Marco mi aveva fatto sentire una bambina, io avevo deciso che non lo ero e volevo che lui cambiasse idea su di me.
L'avevo osservato decine di volte al campetto con i suoi amici, con Roberto che tirava le pallonate sui balconi della canonica per far arrabbiare il prete, o quando prendevano a sassate i nidi di vespe sul muro, in alto, dietro l'oratorio per poi correre via come indemoniati. Tutti pensavano che fosse un delinquente ma io credevo, invece, che fosse il più figo di tutti; non tanto perché era bello da farti mancare il fiato, ma perché aveva quel modo di fregarsene di quello che pensava la gente che rendeva ogni suo gesto vero, genuino, nel bene e nel male. Per quel motivo, quando quel giorno mi aveva trattata come una bambina, avevo sentito l'urgenza di dimostrargli che non lo ero. Perché, in fondo, quello spazio nel gruppo era più mio che suo, perché lui era arrivato solo quella mattina mentre io avevo alle spalle due anni di uscite, lui non era l'unico figo di quel gruppo e desideravo con tutta me stessa che se ne accorgesse.
«Ne capisco abbastanza» gli avevo risposto piccata dopo che avevo avuto il coraggio di alzare gli occhi e di guardarlo in faccia.
Era rimasto sorpreso dalla mia risposta e, forse, dal fatto che non ero scoppiata in lacrime ed ero corsa da mio padre. Avrei voluto farlo, lui non aveva idea di quanto avrei voluto girarmi e andarmene distante da lui, dalla sua moto veloce, dal suo sorriso beffardo e dai capelli scuri e rasati che portava così corti solo d'estate. Ma non l'avevo fatto, ero rimasta immobile con le braccia incrociate sul petto e il viso imbronciato, desiderando con tutto il cuore di aver ascoltato mia mamma quella mattina e di essermi acconciata i capelli in modo che mi facessero sembrare più grande.
«Lascialo perdere, Anna» mi era venuto in soccorso Agostino. «Lui è nuovo, è solo un "bocia", non ne sa niente di quanto va una moto o di come ci si comporta con quelli con più esperienza di lui» aveva detto appoggiandomi una mano sulla spalla e guardando Marco dritto negli occhi.
Per la prima volta avevo visto vacillare il sorriso strafottente sul volto di Marco. L'aveva chiamato "bocia", che dalle nostre parti significa ragazzino, quello inesperto che non sa niente, un soprannome che gli sarebbe rimasto appiccicato addosso nel nostro gruppo e che non sarebbe più riuscito a lavarselo via da quella pelle olivastra che faceva risaltare i suoi occhi chiari.
Non aveva fiatato quella volta, Marco, mi aveva guardata e mi aveva sorriso.
«Guarda tu a quanto arriva la moto»
Mi aveva detto prendendomi per un braccio e trascinandomi sopra il serbatoio per farmi vedere. Non mi aveva dato la soddisfazione di darmi una risposta come si poteva fare in una conversazione tra adulti e io mi ero sentita piccola e grande allo stesso tempo. Piccola perché era lui che mi ci faceva sentire così e grande perché avevo tutta l'intenzione di non farmi mettere i piedi in testa da lui.
«Non sai leggere che mi devo arrangiare a guardare il contachilometri?» Gli avevo chiesto appena mi aveva fatta scendere.
Avevo sottolineato l'ultima parola per fargli capire che anch'io ne sapevo qualcosa di moto, come le persone adulte, e lui era scoppiato a ridere, buttando indietro la testa e godendosi quel momento.
«Tu vieni su proprio bene» aveva constatato ridendo e rimettendosi il casco.
In quel momento mi era comparso un sorriso di vittoria sulle labbra. Non ero una bambina, non ero sicuramente più inesperta di lui in quell'ambiente e avevo tutta l'intenzione di non farmi portare via da lui un posto di rispetto che mi ero conquistata negli anni tra quelle persone. Nessuno lì dentro mi trattava da ragazzina, ero determinata a farglielo entrare in testa, con le buone o con le cattive.
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[COMPLETA]Come in quella vecchia Polaroid
ChickLitAnna è una ragazza all'ultimo anno del liceo; è carina, posata, dolce, studiosa ma non un topo da biblioteca. Ama uscire con le amiche, leggere libri e guardare film. Marco è un venticinquenne moderatamente ricco, scapestrato, con un unico vero amic...