Capitolo 41 (MARCO)

744 43 19
                                    

Buongiorno! Ieri vi ho lasciati un po' traumatizzati, spero che oggi vada un po' meglio... confesso di essermi sentita un po' in colpa per come ho finito il capitolo. Vorrei ringraziare ila_m91 per la consulenza tecnica su tutta la parte di ortopedia, degenze, tempi di recupero e chi più ne ha più ne metta. Mi ha risparmiato interminabili ricerche su Google con conseguenti immagini raccapriccianti che mi avrebbero fatto accapponare la pelle! Ora però vi lascio al capitolo.

Buona lettura!


Domenica, 20 luglio 1997 (Marco, 25 anni)

I medici mi avranno ripetuto cento volte almeno di stare fermo mentre mi fanno la TAC. Come possono pensare che lo faccia se non mi dicono niente di come sta Anna? Mi sono svegliato dentro una fottutissima ambulanza e mi hanno detto di stare fermo, di non agitarmi. Ma si rendono conto di cosa mi stanno chiedendo? Anna era dietro di me, me la sono sentita strappare via quando la moto si è piantata contro quel povero cane. Gli occhi terrorizzati di quella povera bestia rispecchiavano perfettamente il terrore che ho sentito mentre Anna lasciava la presa e veniva scaraventata lontano da me.

Cristo, che casino ho fatto. Ho promesso al padre che l'avrei portata a casa sana e salva ed eccomi qua, disteso su una barella con i medici che cercano di capire se mi sono fottuto il cervello o meno. Purtroppo pare che sia ben sano di mente, almeno una piccola amnesia per dimenticarmi questa sensazione disperata mentre cerco di capire come sta Anna me la meritavo.

«Mi dite come sta Anna?» Sbraito contro uno degli infermieri che mi gira attorno da quando sono entrato.

Lui si gira, continua a fare le sue cose e mi ignora, così cerco di mettermi seduto ma un dolore lancinante al torace mi fa desistere dal mio intento... o almeno ritardare.

«Cosa diavolo pensi di fare?» Mi domanda con gli occhi fuori dalla testa e una mano che mi tiene ancorato alla barella.

«Se non mi dite come sta Anna, giuro che vado a vedere da solo» sono irragionevole, me ne rendo conto, ma il cuore mi sta uscendo dal petto.

Possibile che nessuno mi dica come sta? È così grave che non vogliono dirmelo? Mille immagini, una più terrificante dell'altra, mi affollano la mente e il nodo che mi si stringe in petto mi fa male fisicamente. Sono praticamente certo che stia avendo un infarto.

«Chi è Anna?» Mi domanda, finalmente prestandomi un po' di attenzione.

«È la mia ragazza, era con me sulla moto» sussurro con un dolore terrificante al torace.

L'uomo alza gli occhi verso un'altra infermiera presente nella saletta in cerca di spiegazioni.

«Credo sia la ragazza che è arrivata con l'altra ambulanza» gli spiega come se io non fossi presente.

«L'hai vista? Sta bene?» Le chiedo disperato.

Lei alza gli occhi verso l'uomo, come se fosse indecisa se dirmi o meno quello che sa.

«Ti prego! Ho bisogno di saperlo» la imploro.

«Sei un parente?» Mi domanda quasi titubante.

La mia fronte si corruga e il mio sguardo si fa perplesso.

«Vi ho appena detto che è la mia ragazza... era su quella maledettissima moto con me!» Le lacrime iniziano a scendermi senza che possa fermarle, un po' per il dolore, un po' per la disperazione che mi sta attanagliando il petto in questo momento.

L'infermiera sospira, guarda l'altro tizio che per tutta risposta alza le spalle e se ne va, poi posa di nuovo lo sguardo su di me e mi sorride.

«Non potrei dirti niente, se non sei una persona della famiglia, ma vado a vedere se riesco ad avere notizie, ok? Tu però calmati e cerca di riposarti, non puoi pensare di correre fuori da qui, almeno per qualche giorno»

Le annuisco con un mezzo sorriso, mi sta bene questo compromesso.

«Hai qualcuno che vuoi chiamare? Qualcuno che vorrebbe sapere che sei qui?» Mi domanda poi con gentilezza.

Vorrei dirle di non preoccuparsi per me, che non ho nessuno che voglia sapere dove sono, di andare a vedere come sta Anna perché mi sento morire, ma alla fine cedo.

«Roberto» sussurro, non c'è bisogno di fare tutta la trafila con mio padre, tanto non verrà.

La donna mi sorride mentre si scrive su un pezzo di carta il numero che le detto, poi scompare dietro la stessa porta dove è scomparso l'uomo di prima. Rimango da solo, dentro un'anticamera di un laboratorio di analisi, sterile e maledettamente opprimente. Resto qui a guardare il soffitto, a contare i secondi che mi separano da una risposta che non so neppure se arriverà, con la mente imbrigliata in pensieri terribili e il cuore che mi martella talmente forte nel petto che penso possa rompere la gabbia toracica.

Conto fino a cento, poi fino a mille ma nessuno entra in questa maledetta stanza. Non so se si siano dimenticati di me, o se mi lascino qui per punirmi, ma quando un'infermiera diversa entra nella stanza per portarmi fuori mi sembra quasi un miraggio.

«Hai notizie di Anna?» Le domando spaventato.

Lei mi guarda corrugando la fronte, non capendo, chiaramente di cosa stia parlando. La disperazione mi assale di nuovo, non voglio stare qui a rispiegare tutta la storia, voglio solo sapere come sta, se sta bene o meno. La donna mi spinge fino ad un corridoio dove ritrovo gli infermieri di prima.

«Ho chiamato Roberto e sta arrivando» mi dice la donna con un sorriso mentre aiuta l'uomo a trasferirmi su un letto che sembra più comodo. A quanto pare dovrò farmi un soggiorno qui dentro, dopotutto.

«Anna? Hai saputo come sta Anna?» La speranza si riaccende nel mio petto ma viene immediatamente sostituita da una sensazione di terrore quando poso gli occhi sul suo volto.

La sua faccia, anche se cerca di sorridere, sembra quella che hanno le persone che ti dicono che qualcuno a cui tieni è morto. Anna è morta. In questo momento ho l'assoluta certezza che Anna è morta.

«È in sala operatoria, l'hanno portata appena è arrivata qui in ambulanza, ma purtroppo non so dirti di più. Non ho modo di avere contatti con chi si trova in sala operatoria» mi spiega con calma, come se stesse parlando a un bambino che potrebbe scoppiare a piangere da un momento all'altro.

Forse perché davvero sto piangendo. Le lacrime mi scendono ai lati della testa fino ad infilarsi nella mie orecchie, una marea di emozioni mi si accavallano nel petto e non mi fanno respirare. Stringo i denti e cerco di non farmi fagocitare dalla disperazione ma è difficile. Questa volta ho combinato davvero un casino. Ho distrutto l'unica cosa per cui valeva la pena di vivere, ho mandato sotto i ferri l'unica persona che dà un senso alla mia esistenza.

È in una sala operatoria, è in una fottutissima sala operatoria e io sono disteso in un letto d'ospedale, in un corridoio che sa di disinfettante e disperazione, in attesa che mi portino in una camera. Vorrei morire. Altre volte ho pensato che avrei voluto farla finita ma mai come in questo momento avevo capito il vero significato di questo mio desiderio. Perché mi salvo sempre ad ogni cazzata che faccio? È una punizione per qualcosa che ho fatto? Altrimenti non si spiega il perché io sopravviva sempre per impelagarmi sempre di più in una vita miserabile fatta solo di errori a cui non riesco a rimediare.

[COMPLETA]Come in quella vecchia PolaroidDove le storie prendono vita. Scoprilo ora