Capitolo 43 (ANNA)

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Buongiorno! Ieri eravate proprio arrabbiati con Giacomo... :) Vi lascio con un nuovo capitolo e vi ringrazio per avermi fatta arrivare già a 10k letture! Quando ho iniziato questa storia mai mi sarei aspettata un risultato del genere, quindi... GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE! Continuate a farmi sapere cosa ne pensate, mi piace da morire leggere i vostri commenti!

Buona lettura.


Martedì, 22 luglio 1997 (Anna, 18 anni)

Apro gli occhi e mi sembra di rivivere lo stesso giorno ancora, ancora e ancora. Sono due giorni che passo dal dormiveglia al sonno pesante, dai dolori allucinanti alla morfina che mi fa passare il dolore ma mi fa anche dormire. Non voglio addormentarmi di nuovo, voglio sapere come sta Marco. I miei genitori sono andati in escandescenze quando l'ho chiesto a loro. Non li biasimo, devono aver preso un bello spavento, ma non possono dare la colpa a lui. Un cane ha attraversato la strada, non potevamo evitarlo, punto. Senza "se" e senza "ma" è successo e basta e adesso non possono negarmi il fatto di sapere come sta, anche se loro sono arrabbiati neri perché lui guidava.

Sto impazzendo, un'infermiera mi ha detto che è cosciente e che non si è fatto molto ma l'ultima immagine che ho di lui è quella di un bambolotto immobile, disteso in mezzo alla strada come se qualcuno l'avesse appena scaraventato fuori dalla macchina. Non mi basta sapere che è cosciente, voglio sapere esattamente come sta.

Mi guardo attorno, fuori è buio e i miei, finalmente, sono andati a casa. Non che non li voglia attorno, ma sentire mia madre piangere e vederla fare sorrisi forzati mentre mi dice parole di incoraggiamento e mio padre con il muso duro e gli occhi incazzati, non sono di certo d'aiuto. Devo già avere a che fare con le viti che mi hanno infilato nel bacino e nel femore, i dolori lancinanti, l'imbarazzo di un catetere per andare al bagno... non ho voglia di dovermi preoccupare anche di fare la faccia sorridente altrimenti pensano che mi suiciderò da un momento all'altro. Ho avuto un incidente e, fortunatamente, i dolori alle gambe li sento... se non li sentissi più significherebbe che non sento più le gambe, che non potrei più camminare. Sono proprio i miei dolori a darmi la prospettiva di quello che è successo.

È stato un incidente grave, certo. I medici dicono che ne avrò per mesi, che mi ci vorrà probabilmente più di un anno per recuperare completamente... ma posso recuperare. Non sarò costretta a cambiare la mia vita perché non sono più in grado di camminare. Per quanto sia stato grave l'incidente, c'è comunque una via d'uscita e ho bisogno di aggrapparmi a quella, non posso disperarmi.

Tenermi nascosto come sta Marco, invece, mi fa impazzire di rabbia e disperazione. Vorrei gridare, dire loro che non è stata colpa sua, invece ogni volta la rabbia che mi assale mi fa scendere le lacrime e non riesco ad impormi come vorrei, mi sento debole, impotente... inutile.

Non ho idea di che ore siano ma fuori dalla mia stanza non ci sono particolari rumori, è quasi lugubre questo posto di notte, mi mette forse anche un po' di paura. Si sente solo in lontananza il rumore di ruote di gomma che strisciano sul pavimento lucido di marmo, forse un'infermiera che spinge un carrello, si avvicina alla mia camera e, quando è a pochi passi si ferma. Giro la testa incuriosita, magari è già ora del giro delle infermiere delle cinque del mattino, ho perso sinceramente il conto di che ore siano.

La luce soffusa che entra dai corridoi illuminati mi fa quasi compagnia, osservo il letto accanto a me, vuoto. Fortunatamente la mia camera ha solo due letti, non riuscirei a sopportare altre persone in questo momento, per quanto un ospedale dovrebbe essere un posto tranquillo per riposare e mettersi in piedi, c'è sempre un viavai di gente che ti rende esausta. Per questo motivo non sono sorpresa dal fatto di vedere entrare qualcuno nella mia camera anche a quest'ora. Il mio cuore, però schizza nel petto quando mi accorgo chi si stia avvicinando, esitante, su una sedia a rotelle.

«Marco» sussurro.

«Ehi» mi risponde usando lo stesso tono di voce, soffermandosi sulla porta come se non sapesse se entrare o meno.

Le lacrime mi velano gli occhi, è vivo, è qui di fronte a me, su una sedia a rotelle, ok, ma respira, si muove, è arrivato fino a qui.

«Posso entrare?» Mi domanda in un sussurro.

«No!» È la risposta secca che mi esce dalle labbra.

Lo vedo sgranare gli occhi per un istante, il suo volto farsi teso per poi abbassare lo sguardo sulle sue mani.

«Non vuoi vedermi? Scusami pensavo... volevo solo chiederti scusa per il casino che ho fatto ma se non vuoi vedermi, ok...» sembra confuso, amareggiato, deluso, triste.

«No, non voglio che tu mi veda così» blatero tra le lacrime che non riesco più a trattenere.

Sono così felice di vederlo.

Marco aggrotta la fronte ma non si muove.

«Così come?»

«Non voglio che tu mi veda con una sacca del mio stesso piscio attaccata al letto» gli sussurro da un lato imbarazzata per la mia confessione, dall'altro terrorizzata dal fatto che scompaia dalla mia vista di nuovo.

Non so neanch'io se voglio che se ne vada o resti qui con me; è difficile capire che cosa mi passi per la testa in questo momento. Marco scuote la testa e i suoi occhi si riempiono di tutto l'amore che ho sempre visto in lui... eccolo il mio Marco, quello che mi lascia vedere la sua anima senza paura, senza esitazione.

«Ti ho ridotto io così e tu hai paura che possa girarmi ed andarmene per queste stronzate?» Mi domanda serio mentre si avvicina, fa il giro del letto e mi prende la mano intrecciando le nostre dita.

«Il cane ha attraversato la strada, non è colpa tua se siamo finiti qui dentro» gli sussurro.

«Potevo andare più piano, provare a evitarlo, metterci più impegno... non proporti mai di venire in moto con me» sussurra poi piano.

Il nodo che mi si forma in gola mi impedisce di respirare. Si sta pentendo di quello che è successo tra noi?

«No, non potevi farlo. È successo, ti ho sfidato io ad andare più veloce... è colpa mia se siamo finiti qua dentro... è colpa mia...» le parole mi escono strozzate, non sono quelle che vorrei dirgli, l'unica domanda che mi grida in testa è quella che più mi farebbe male sentire la risposta.

«Non è colpa tua, Anna... sono io che rovino qualsiasi cosa... sono io che faccio sempre casini» le sue parole escono rarefatte come se facesse fatica a pronunciarle.

Alla fine glielo chiedo. Al diavolo le mie paure, al diavolo quello che potrebbe dirmi. Ho bisogno di lui e ho bisogno di sapere.

«Ti sei pentito di quello che è successo tra noi?» Gli domando senza esitazione, come se quella fosse l'unica verità che mi importa e che voglio conoscere.

Il volto sofferente di Marco scatta verso il mio, i suoi occhi sono un miscuglio di emozioni che mi fanno mancare il respiro.

«Non potrei mai pentirmi di una cosa del genere... mai... ma se non ti avessi convinta a salire su quella moto, non saresti qui, su questo letto... non potrò mai far sparire il senso di colpa che mi porto dentro» ammette sincero.

È quello che mi basta sentire, le sue parole mi fanno tornare a respirare di nuovo.

«Io ti ho detto di sì, Marco. Non mi hai costretta... e non è stata colpa tua quello che è successo. Non potevi farci niente, ho visto anch'io quel cane, in curva, all'ultimo momento... neanche un miracolo poteva fare in modo che lo evitassimo» cerco di rassicurarlo stringendogli forte la mano.

Marco alza lo sguardo di nuovo sul mio... il mio Marco, quello dolce, che si preoccupa per me. Si avvicina un po' di più, mi bacia delicatamente ogni dito della mano, poi appoggia la testa sulle nostre dita intrecciate e sospira.

«Non potrei mai pentirmi di quello che è successo con te» mi dà la conferma che mi serve per farmi tornare il sorriso.

[COMPLETA]Come in quella vecchia PolaroidDove le storie prendono vita. Scoprilo ora