Capitolo 26 (ANNA)

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Buongiorno! Eccovi il capitolo 26. Spero vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate con un commento, una stellina... un foglietto infilato sotto la porta di casa... :)

Buona lettura!


Martedì, 24 giugno 1997 (Anna, 18 anni)

I due studi di funzione che ci si presentano durante l'esame sono qualcosa che non ho mai neanche visto durante l'anno. Alzo gli occhi verso Elisa, seduta accanto a me, e la ritrovo con gli occhi sgranati e pieni di terrore. Non sono l'unica a non sapere da che parte cominciare e il cuore mi sale in gola insieme al gusto salato delle lacrime. "Devo fare un esame decente" è quello che continuo a ripetermi da questa mattina, non straordinario ma almeno decente, ma a questo punto è più che chiaro che debba abbassare l'asticella di molto e puntare alla sufficienza.

Le ore passano e mi sento come se mi avessero messo dentro una lavatrice con la centrifuga accesa: i primi passi li ho anche fatti per seguire il ritmo dei giri, ma poi sono stata sballottata a destra e a manca con una forza tale che sono quasi schizzata fuori. Schizzare fuori dall'aula, infatti, è quello che faccio quando consegno il compito con solo tre risposte su otto finite... e non so neppure se siano giuste.

«Io non so nemmeno se sono arrivata alla sufficienza» commenta Elisa allucinata, mentre mi stringe in un abbraccio fortissimo.

Il groppo che mi si stringe in gola mi fa quasi venire da piangere ma mi trattengo, visto che la madre di Elisa, che ci ha accompagnate stamattina, ci sta aspettando fuori. Non voglio dover spiegare che non sono riuscita a finire nemmeno metà del compito: è troppo umiliante dover ripetere questa cosa di fronte a lei, già dovrò farlo stasera con i miei genitori, piangere due volte in un giorno è troppo anche per me.

«Anch'io ho fatto abbastanza schifo» mi limito a dire senza guardarla nemmeno in faccia.

Camminiamo fuori dalla scuola con un'espressione a metà tra il mesto e lo sconvolto. Mi sento le guance andare a fuoco dallo sforzo, neanche avessi fatto la campestre su una gamba sola. Mi basta, però, un solo sguardo verso il parcheggio di fronte alla scuola perché tutto il mio mondo sia capovolto nel migliore dei modi: Marco è lì, appoggiato alla sua BMW, con le braccia incrociate sul petto e un sorriso sornione quando mi vede uscire. Rimango imbambolata a guardarlo mentre Elisa mi tira una leggera gomitata.

«Dico a mia mamma che passa tuo padre a prenderti» il mezzo ghigno compiaciuto che le compare sulla faccia mi fa arrossire più di quanto non lo faccia Marco fuori da scuola. «Aspetta solo che siamo andate via, prima di salire in macchina con lui» aggiunge prima di sganciarmi un sonoro bacio sulla guancia e correre verso la macchina di sua madre.

Resto lì, imbambolata a guardarlo, come se fosse l'essere più bello comparso sulla terra. Aspetto interminabili minuti che Elisa e la mamma si tolgano dai piedi, poi mi avvicino con passo incerto... e se non fosse qui per me? Il dubbio mi assale quando mi rendo conto che, se non lo fosse per davvero, sarei rimasta senza passaggio fino a casa.

«Non ho trovato la bicicletta su cui lasciarti il biglietto, così ho pensato di aspettarti e di riaccompagnarti a casa... così mi dici come ti è sembrato il compito» si alza dal cofano su cui è appoggiato e mi apre la portiera della macchina per farmi salire.

Con la coda dell'occhio vedo Marta, Michela e Valentina guardarmi con gli occhi che escono dalle orbite e un colorito verde di rabbia. Non riesco a trattenere un sorriso compiaciuto.

«Sono lontanissima dal raggiungere la sufficienza»

Dirlo ad alta voce mi fa realizzare quanto male mi sia andato questo esame e, considerando che il compito di italiano non è uno dei migliori che abbia fatto, il nodo che mi si forma in gola è quasi opprimente.

«Davvero? O è il tuo pessimismo a parlare?» È serio quando me lo chiede e sembra anche preoccupato.

«No, non sto scherzando. Ho dato solo tre risposte su otto e non so nemmeno se siano giuste» non riesco a fermare le lacrime che mi scendono sulle guance.

Tutta la tensione di questi due giorni mi crolla addosso e mi schiaccia come se mi fosse franata addosso una montagna. Mi sento soffocare, i singhiozzi mi rivoltano lo stomaco come un calzino e l'unica cosa che mi trattiene dal gridare e scappare via come una pazza, sono le braccia di Marco che mi tengono stretta.

«Vedrai che troverai una soluzione, tu trovi sempre una soluzione» me la sussurra appena la frase ma lo dice con una fermezza tale che anch'io ci credo.

I singhiozzi iniziano a calmarsi e le mie lacrime si asciugano sulle guance.

«A te serve una dose massiccia di gelato» afferma mettendo in moto la macchina e lanciandomi un'occhiata di sfuggita mentre un sorriso gli si allarga sulla faccia.

Non riesco a trattenere una piccola risatina, sembra quasi che gli sia venuta in mente l'idea del secolo.

«Tu non dovresti tornare in ufficio?» Odio fare l'avvocato del diavolo ma lui ha un lavoro e delle responsabilità, non può passare tutto il giorno a cercare di tirarmi su di morale.

Lo osservo mentre si irrigidisce un pochino ma poi sorride.

«Anche se non passo un pomeriggio a farmi insultare da mio padre non è una tragedia» ridacchia e non riesco a capire se sia nervoso o meno. «È il vantaggio di essere il figlio del padrone di casa» mi fa l'occhiolino e il mio mondo si scioglie un po' di più.

Ci impieghiamo neanche mezz'ora ad arrivare ad una villa con un enorme parco che si estende sul retro. Normalmente nei fine settimana è piena di gente che passeggia e prende il sole ma in un martedì qualsiasi di fine luglio non c'è poi così tanto caos.

«Tu entra pure e cerca un posto dove possiamo sederci, io vado a parcheggiare la macchina e prendere il gelato»

«Non sai neppure che gusto mi piace» mi fingo offesa.

«Fidati che lo so» sfodera il suo solito sorriso che conquista tutte le ragazze e mi fa l'occhiolino.

Non so se arriverò viva alla fine della giornata, non so neppure se riuscirò a scendere da questa macchina senza sciogliermi come un ghiacciolo al sole.

*

Trovo posto sull'erba sotto uno degli alberi enormi che fanno ombra nel parco, è un po' appartato ma non volevo ritrovarmi in mezzo ai bambini urlanti o che giocano a pallone. Quando lo vedo arrivare con in mano una vaschetta di gelato, sgrano gli occhi e non so se sia per il modo in cui la maglietta azzurra aderisce al suo fisico perfetto e gli mette in risalto gli occhi, oppure perché quella vaschetta è davvero enorme.

«Hai svaligiato la gelateria?» Gli domando quando si siede accanto a me e appoggia la confezione tra di noi.

«Vista la tua giornata ho pensato che ti servisse tutto l'aiuto possibile»

Vorrei dirgli che a me basta stare accanto a lui perché il mondo diventi un posto migliore in cui vivere, o per lo meno il mio di mondo, ma preferisco rimanere zitta e non fare la figura della ragazzina.

«Fragola e cioccolato» Sussurro sorpresa quando toglie la carta che lo avvolge.

Le lacrime quasi mi salgono di nuovo agli occhi e questa volta sono di felicità.

«Certe cose me le ricordo» sembra quasi imbarazzato.

Mi sporgo verso di lui e gli stampo un bacio sulla guancia. Lo sento irrigidirsi sotto il mio tocco ma quando mi allontano un sorriso sincero gli compare sulle labbra.

«Grazie»

Mi porge un cucchiaino di plastica, uno lo tiene in mano e, senza aggiungere una parola iniziamo ad affondarli nel gelato che abbiamo di fronte. Sarà almeno un chilo e non riusciremo mai a finirlo ma apprezzo il fatto che si sia ricordato quali siano i miei gusti preferiti. Improvvisamente, quelli che erano diventati i miei gusti più odiati, sono tornati a sfiorarmi le papille provocandomi un brivido piacevole lungo la schiena... e non sono così sicura che questo brivido sia dovuto al gelato.

[COMPLETA]Come in quella vecchia PolaroidDove le storie prendono vita. Scoprilo ora