Capitolo 2 (ANNA)

1.6K 56 30
                                    

Come promesso, ecco il secondo capitolo. Fatemi sapere cosa ne pensate! Mi fa piacere leggere i vostri commenti.


Lunedì, 01 maggio 1989 (Anna, 10 anni)

Ricordo quel primo maggio come se fosse ieri, era una di quelle primavere calde che sembrava quasi di essere in estate e anticipava il momento in cui ci sarebbero state le vacanze, le gite al mare e le giornate passate in sella alla bicicletta per le strade basse del paese. Avevo dieci anni e da qualche mese era nata mia sorella Cristina.

Ricordo di essermi alzata quella mattina con un diavolo per capello, perché mia sorella aveva pianto tutta la notte e io non avevo quasi chiuso occhio, nonostante fossi barricata in camera mia e lei fosse rinchiusa in quella che io chiamavo "lo sgabuzzino" perché era grande la metà della mia stanza. Il mio problema, però, non era tanto il fatto che mi avesse tenuta in piedi tutta la notte, era più che altro l'idea che mia madre fosse stata in piedi con lei e che, nel momento in cui avevo messo piede giù dal letto, mi avesse chiesto di andarle a prendere il biberon con l'acqua in cucina. L'avevo fatto per mia mamma ma odiavo già mia sorella.

Non la odiavo tanto per quel biberon ma perché fino a qualche mese prima era mia madre a venirmi a svegliare, baciandomi sulla fronte e sussurrandomi all'orecchio e quella era la prima mattina in cui lei non l'aveva fatto. Piano piano, mia sorella si stava portando via anche quello. Da quando era arrivata si era portata via tutto della mia vita, senza che io avessi potuto farci niente: le mie abitudini, i miei ritmi ed ora anche mia madre con le sue tenerezze.

«Perché quel musetto?» Mi aveva chiesto lei mentre le porgevo il biberon con dentro un liquido giallino pallido.

Avevo alzato le spalle senza rispondere, impertinente come sempre, ed ero andata da mia nonna a fare colazione, nonostante mia madre mi avesse preparato le fette biscottate e la marmellata sopra il tavolo. Non volevo dirle che mi sentivo derubata da quella piccola in fasce che teneva tra le braccia. Cristina era arrivata e si era portata via tutti i miei momenti con mia mamma, i momenti felici, quelli che erano solo nostri; non c'erano più le canzoni di Battisti cantate a squarciagola in macchina mentre andavamo a trovare la zia, non c'era più il momento in cui l'aiutavo a fare la spesa tra gli scaffali del supermercato, non c'era più il sabato pomeriggio passato a mescolare la besciamella per fare il pasticcio della domenica e non c'era nemmeno più il bacio del risveglio... si stava portando via anche quello.

Non ce l'avevo con mia mamma, vedevo quanto era stanca e non le avrei mai chiesto di portarmi in giro solo perché mi mancavano le canzoni di Battisti... e la cosa mi faceva arrabbiare, mia sorella si stava portando via anche l'energia di mia mamma e quello proprio non glielo perdonavo.

«Muso lungo» mi aveva chiamato mio padre, vedendomi seduta arrabbiata sull'ultimo gradino delle scale esterne.

Avevo alzato gli occhi e guardato mentre sistemava la moto per il giro che di solito faceva la domenica o nei giorni di festa. Era da quando ero nata, e forse anche da prima, che mio papà spariva ogni domenica per andare in giro in moto con qualche amico. Ero abituata a vederlo partire a metà mattinata e fare ritorno solo la sera, per l'ora di cena. Non sapevo in che cosa consistessero quei giri e mi immaginavo paesi nuovi, completamente diversi da quello di seicento anime in cui ero cresciuta, dove la gente accoglieva quelli che, come lui, partivano per quel viaggio ogni sacrosanta domenica. Non so perché avessi questa visione quasi epica di quello che faceva, ma ricordo che mi affascinava tutto il mistero che quella partenza comportava. Non erano in tanti, all'epoca, ad avere la moto e mio papà doveva essere per forza uno che valeva, se andava in giro con quella cosa enorme che pesava un accidente.

«Sei arrabbiata?» Mi aveva chiesto mollando la giacca sulla sella e venendo ad accucciarsi di fronte a me.

«Cristina mi ha tenuta sveglia tutta la notte» avevo bofonchiato indispettita con le braccia incrociate sul petto e le mani infilate strette sotto le ascelle.

Mio padre aveva sorriso sotto i suoi baffi neri e mi aveva appoggiato una mano sul ginocchio.

«Vuoi tornare a letto a dormire?» Mi aveva chiesto con aria incuriosita.

Mio padre non sapeva bene come rapportarsi con i bambini, forse perché anche lui un padre non ce l'aveva quasi avuto e non gli aveva mai insegnato a prenderli per mano o abbracciarli.

«No, voglio che ritorni dentro la pancia e che torni tutto come prima» avevo corrugato le sopracciglia e usato il mio tono più arrabbiato.

Mio padre aveva ridacchiato e mi ricordo la cosa mi aveva sorpresa, mi ero aspettata che mi dicesse di non fare i capricci perché ormai ero una bambina grande, ma non l'aveva fatto. Tutti in quel periodo mi dicevano di comportarmi come una bambina grande, perché adesso avevo una sorellina, ero diventata la maggiore e dovevo aiutare la mamma, ma nessuno mi aveva dato il tempo di diventaregrande. Nessuno mi aveva detto comediventare grande e la cosa mi confondeva perché mi sembrava che tutto quello che facevo fosse sbagliato quando, fino a pochi mesi prima, nessuno mi aveva mai detto nulla se mi comportavo allo stesso modo. Mio padre, invece, in quel momento non mi stava dicendo di fare la bambina grande, mi stava trattandoda bambina grande.

«Vuoi venire a fare il giro con me in moto?» Mi aveva chiesto senza troppi giri di parole.

Subito non ero riuscita a capire se facesse sul serio, pensavo che mi stesse chiedendo se volevo salirci, come facevamo di solito quando venivano a trovarmi i miei cugini piccoli, ma la domanda non era quella.

«Fino a stasera?» Gli avevo chiesto incredula con gli occhi sgranati e la voce sorpresa che solo una bambina stupita poteva tirare fuori.

«Fino a stasera» mi aveva confermato. «Però se hai paura o sei stanca possiamo tornare prima» aveva aggiunto quando non aveva ricevuto una risposta da me.

Avevo scosso la testa da una parte all'altra con violenza, non aveva capito che io non dicevo niente perché ero troppo emozionata per parlare. Mio padre si era alzato, era andato a parlare con mia madre, l'avevo sentito discutere perché lei diceva che ero troppo piccola e ricordo di essermi arrabbiata: perché tutti mi dicevano che ero ormai una bambina grande e adesso lei sosteneva che fossi piccola? Allora, ero grande o no? Alla fine mio padre era uscito in terrazzo, mi aveva detto di andare in camera mia, lì mi aveva fatto scegliere un paio di pantaloni lunghi di velluto nero a costine, un po' troppo pesanti per le temperature che c'erano fuori, ma non avevo osato fiatare. Mi aveva fatto mettere la giacca a vento per l'inverno e un paio di scarponcini che usavo per andare in montagna.

Ero bardata come se avessi avuto addosso uno scafandro, avevo caldo e un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Quando siamo scesi in cortile mi aveva messo in testa il casco che una volta era di mia madre, aveva stretto la cinghia sotto il mento fino a fine corsa, pizzicandomi un po' la pelle ma, anche in quel caso, non avevo fiatato.

Ricordo che era salito su quella moto e io mi ero sentita piccolissima in confronto a lui, emanava un'aura talmente solenne che ne ero quasi intimorita. Aveva acceso la moto, facendomi tremare fin dentro la pancia, poi mi aveva detto di mettere un piede sulla pedalina, mi aveva allungato la mano. Quando gliela avevo afferrata, quasi con timore reverenziale, mi aveva tirata su, dietro di lui, seduta a cavalcioni di quella sella troppo larga anche per le mie gambe lunghe.

Ricordo di aver voltato lo sguardo verso mia mamma e mia nonna che erano lì, a guardarci partire, con il sorriso sulle labbra e la preoccupazione negli occhi. Avevo infilato le mani nelle tasche della sua giacca e mi ero aggrappata alla fodera con tutta la forza che avevo nelle dita, avevo stretto fino a farmi male. Quando aveva accelerato appena per muoverci dalla ghiaia del cortile, il cuore aveva iniziato a martellarmi nel petto come se fosse impazzito. Ero eccitata, spaventata, euforica e nervosa tutto allo stesso tempo. Ero diventata grande, mio papà mi aveva dimostrato cosa volesse dire esserlo, fare le cose da grandi.

Di quella domenica non ricordo dove siamo stati o quanto siamo rimasti fuori; la ricordo come un viaggio magico tra motociclisti adulti che mi trattavano come se fossi una di loro, ricordo la fierezza negli occhi di mio padre quando mi presentava ai suoi amici e soprattutto ricordo che quello è stato il primo momento in cui ho trovato davvero un punto di contatto con lui. È stato il momento in cui ho capito che se gli fossi rimasta accanto non mi sarebbe mai successo nulla, che in quel momento ero entrata a far parte della sua vita, quella che nemmeno mia madre aveva con lui. Avevo trovato qualcosa che nemmeno Cristina sarebbe riuscita a distruggere perché io e lui, in sella a quella moto, eravamo invincibili.

[COMPLETA]Come in quella vecchia PolaroidDove le storie prendono vita. Scoprilo ora