Capitolo XXXVII

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Byron aveva cercato di rimandare quel fatidico colloquio, usando come scusa anche gli avvenimenti accaduti quella notte. 

Era inevitabilmente ancora scioccato ma comprendeva anche la premura dell'Imperatore nel volergli parlare al più presto, prima di ripartire per la Capitale. 

Per questo non si sorprese affatto quando aprì la porta del suo ufficio e lo ritrovò seduto alla sua scrivania, quasi fosse lui il padrone di quella casa. 

«Scusatemi, questo è il vostro posto», asserì, alzandosi immediatamente ma Byron lo bloccò con la mano, perentorio: «No, potete restare».

D'altronde, lui era il Duca di quel territorio ma l'uomo di fronte era il padrone di tutte le terre sulle quali viveva. 

Il sovrano lo guardò per qualche istante, indeciso se accontentarlo o meno, ma alla fine decise che in fondo certe formalità tra di loro non servivano a nulla. 

Si riaccomodò al posto del signore ma non invitò Byron a sedersi di fronte a lui. Fu il duca che, di sua iniziativa, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, decise di sedersi sulla poltrona vicino al camino, la sua preferita. 

«Se gradite qualcosa, servitevi pure», offrì, ormai dimenticò di qualsiasi galateo, indicando il carrello pieno di alcolici lasciato lì dai servi. 

In risposta l'uomo più potente dell'Impero sorrise ed alzò in alto un bicchiere pieno, abbastanza per farglielo vedere: «Come vedete non ho fatto complimenti».

C'era sempre stato un clima di familiarità tra i due, tanto che Byron poteva tranquillamente considerarlo come uno zio. 

Ciò che non riusciva a capire era se l'uomo stesse solo facendo finta, in attesa di parlare di cose più serie, o se davvero per lui non era cambiato nulla.

Avrebbe tanto voluto togliersi il dente e chiedergli apertamente che cosa stava pensando, e quale sarebbe stata veramente la sua sorte. 

E invece si versò un bicchiere pieno di bourbon e restò in attesa che fosse lui a parlare per primo. 

«Devo dire, mio caro Byron, che i colpi di scena non mancano da queste parti», iniziò, riferendosi palesemente agli ultimi avvenimenti di quella notte. 

Era rimasto piuttosto in silenzio per tutto il giorno, senza giudicare ciò che stava succedendo. Ma era ovvio che si fosse fatto un'idea precisa e che, da uomo intelligente ed educato, aveva deciso di tenerla per sé.

Byron cercò di sdrammatizzare, ironizzante: «Lo sapete no? Non mi piace la normalità, mi annoia».

Ormai non era più neanche vero, anzi, ad essere del tutto sincero, Byron stava iniziando a stancarsi di tutte quelle sorprese. 

La presenza di Astrid gli aveva fatto venire voglia di vivere il resto della sua esistenza nella completa normalità, senza colpi di scena ne tanto meno drammi.

E proprio nel momento in cui desiderava ciò che non aveva mai avuto voglia di avere, tutto il resto del mondo gli si ritorceva contro, impedendogli di stare tranquillo. 

«Se devo essere sincero, preferirei che da queste parti sia più noioso...» ammise senza vergognandosene. 

«Vi assicuro che il mio palazzo è meno movimentato di questa tenuta. Ma mi incuriosisce molto la vostra affermazione. Non eravate voi ad odiare più di ogni altra cosa il tedio della normalità?»

L'imperatore era una delle poche persone che poteva dire sinceramente di conoscere Byron, o almeno il Byron scapolo d'oro della famiglia Devenport. 

«Le persone cambiano» affermò, osservando quasi assorto il suo bicchiere di bourbon. 

«O forse, vorreste dire che evolvono... Migliorano o peggiorano. E voi, siete migliorato o peggiorato?»

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