Strofa.11.2: Ribelle*

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Per andare a Rochester utilizziamo il nostro buon vecchio furgone, cogliendo così l'occasione per fare qualche tappa extra, fermandoci in antiquate stazioni di servizio che ricordano tanto quelle della più famosa Rout 66.

Rochester confina con le rive del Michigan, un piccolo angolo di paradiso moderno in cui non ho per nulla fretta di tornare.

Durante l'ultimo tratto di strada, giocherello con le cuciture e i passanti dei jeans di Colin fino ad intrecciare le dita con le sue per calmarmi, senza molto successo.

Ciò che ho rimandato per giorni sembra inevitabile adesso, perciò afferro il telefono e chiamo mio padre. Non provo neanche a contattare mia madre, sarebbe peggio.

Sono così nervosa che potrei mordere qualcuno mentre resto in attesa, e la presenza di Colin, per quanto rassicurante, non è sufficiente a placare al mia ansia. Alla fine del terzo squillo, sento la voce roca e familiare di mio padre, dal suo tono sembra l'abbia tirato giù dal letto.

"Ciao papà" scende un silenzio lungo e pesante prima che lui si degni di romperlo "Stella? Sto avendo le allucinazioni?" devo trattenermi dal ridere, non sa quanto c'è vicino!

"Da quanto non ti prendevi il disturbo di chiamare?" questa volta non riesco proprio a trattenere il sospiro di disappunto. Non ha idea di quanto mi sia costata questa chiamata. So già cosa diranno e quale tono useranno, e avrei preferito evitare perché è estenuante e non ho la forza di combattere ogni volta.

"Si, scusa... sono stata parecchio occupata ultimamente"

Che scusa ridicola!

Irritata, fisso  la parete metallica del furgone nel tentativo di evitare lo sguardo Colin durante la conversazione, ma lui fa scivolare l'indice sotto il mio mento costringendomi a guardarlo in faccia. Deglutisco a disagio e imbronciata ma non posso fare a meno di trovare le sue tenere attenzioni, adorabili. Lui non è tipo da immischiarsi nelle vite degli altri, però ha deciso di partecipare alla mia e vuole confortarmi durante questa difficile prova. Se non fossi al telefono con mio padre, gli salterei addosso.

"Eri così occupata da non trovare due minuti per chiamare i tuoi genitori?" più prosegue più il suo tono si inasprisce così come la mia pazienza si assottiglia"Sai che tua madre è preoccupata da morire?" vedendo la mia espressione, Colin inizia a farmi gesti come a dirmi di respirare e restare tranquilla. Serro le labbra e seguo i suoi consigli "Te l'ho detto, lavoro per una grossa società e... qualche tempo fa ti ho parlato del gruppo in cui suono..."

"Si, quello..." le parole arrivano come un pugno al petto. Colin aggrotta le sopracciglia, sentendo il tono di mio padre. Non mi abituerò mai al fatto che non abbiano mai voluto fare il benché minimo sforzo per cercare di capirmi e ogni volta fa male come la prima.

"Si, quello!" lo sento sospirare dall'altro capo "E pensa che il nostro gruppo darà un concerto a Rochester questo sabato al Grand Palace. Magari... tu e la mamma potreste venire?"

Ecco, l'ho detto!

"Assistere ad un concerto metal? ... se ricordo bene quello che mi hai spiegato l'ultima volta"

"Si, esatto. So che non è il vostro genere, ma magari..."

"Spero tu stia scherzando?!" mi interrompe subito e per poco non lascio cadere il telefono a terra. Lo riprendo giusto in tempo per ascoltare il resto della predica e devo sforzarmi di essere la donna forte che sono diventata durante la mia vita a New York, e non la ragazzina spaventata e compiacente di quando vivevo ancora li con loro.

"Perché mi stai chiamando? Non ti fai sentire per mesi e improvvisamente te ne esci con qualcosa del genere? 

"Perché mi stai chiamando? Non ti fai sentire per mesi e improvvisamente te ne esci con qualcosa del genere? 

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