2. Roba da sbattere la testa al muro

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Tornai a casa a testa bassa e con i pugni stretti nelle tasche, Raise Your Fist and Yell di Alice Cooper che mi martellava i timpani attraverso gli auricolari ben conficcati nelle orecchie. Aprii la porta e scoprii con sollievo di essere solo: i miei non erano ancora tornati dal lavoro e la pestifera marmocchia che chiamavo sorella doveva essere a pranzo dai nonni o da qualche amica.

Consumai un pasto frettoloso, scarabocchiai i compiti per casa, tentai di prepararmi a un'interrogazione di filosofia: ma i miei pensieri tornavano sempre alla ragazza bionda che non avrei rivisto prima dell'indomani. Invece dei paragrafi e degli schemi riassuntivi del libro, davanti ai miei occhi apparivano i lampi dorati dei capelli di Viola, le sue lunghe gambe aggraziate, la delicata simmetria dei suoi lineamenti. Il desiderio mi faceva vibrare le ossa e i nervi.

Era roba da sbattere la testa al muro. Da strangolarsi con il cavo della doccia. Da legarsi un macigno addosso e buttarsi al Tevere con tutte le scarpe.

Chiusi il libro di scatto e mi abbandonai contro lo schienale della sedia. Non potevo andare avanti così. Viola doveva sapere dei sentimenti che provavo nei suoi confronti.

La soluzione più logica, a questo punto, sarebbe stata quella di aspettare il giorno successivo, avvicinarla e presentarmi con un bel sorriso; giocarmi le mie chances, mettere in conto anche la possibilità di un rifiuto. Ma sapete chi è che sceglie le soluzioni più logiche?

Non io.

Alzai lo sguardo al poster di Alice Cooper appeso sopra la scrivania, come a chiedergli un'ispirazione. Alice Cooper era più di un grande cantante, più di un uomo capace di scrivere strepitosi pezzi di rock duro e graffiante: Alice Cooper mi capiva. Almeno, era così che mi sentivo quando ascoltavo le sue canzoni. Love Should Never Feel Like This mi entrò in testa; cominciai a canticchiarla, poi andai a cercare il CD sui miei scaffali in disordine, lo infilai nello stereo e sparai il pezzone dalle casse al volume giusto.

I can't eat
I can't sleep
I feel sick
I'm so weak

Love should never feel like this
I must be doing something wrong
I've never felt this way before

Ancora una volta, lo zio Alice metteva in musica e versi quello che provavo. Sentii che mi tornava un po' di determinazione. Iniziai a girare in tondo per la stanza, come un Leo in gabbia (eh eh, buona questa). Cosa potevo fare per avvicinarmi a quella meravigliosa, incantevole, luminosa sconosciuta che aleggiava per la scuola, simile a una visione soprannaturale? Conoscevo delle parole che avrebbero potuto risparmiarmi di fare la peggior figura di palta dell'universo?

Non le conoscevo.

Mi ricordai, all'improvviso, che avevo promesso a Iacopo di contattare qualcuno dei nostri amici, per invitarlo a trascorrere qualche ora con noi nel pomeriggio. Inutile dire che sarei rimasto volentieri a casa a struggermi per Viola e a cercare una soluzione al mio problema, ma ormai avevo dato la mia parola.

Forse avrei dovuto confidare il mio tormento interiore a Iacopo e agli altri, ma l'imbarazzo mi bloccava. Non mi ero mai preso una scuffia del genere e mi rendevo conto di quanto fosse stupido sbavare dietro a una ragazza senza avere il coraggio di fare un passo nella sua direzione. Però non potevo farci niente.

Mandai un messaggio a Marco, il geniale nerd i cui nonni erano sempre ben riforniti di alcolici (con nostra somma gioia): questi mi rispose, con grande franchezza, che non gli andava di uscire. Non ne fui molto sorpreso, in realtà. Marco trascorreva i tre quarti della sua vita al computer, chiappe sulla sedia girevole, occhi sullo schermo, mente lanciata nel cyberspazio come il protagonista di un romanzo di Gibson; se volevamo vederlo, dovevamo essere quasi sempre noi a spostarci dalle sue parti. Ero sicuro che, se avesse potuto, Marco avrebbe lasciato perdere la scuola e tutto il resto e sarebbe rimasto davanti al pc acca-ventiquattro: purtroppo per lui, i suoi genitori lo avrebbero crepato di mazzate se si fosse tramutato in un hikikomori fatto e finito.

Provai con Davide e Aureliano ed ebbi miglior fortuna: dissero che si sarebbero fermati da Iacopo per un paio d'ore. Quei due andavano sempre in giro in coppia, e non c'era da stupirsene: Davide era il master del nostro gruppo di Dungeons & Dragons e una vera enciclopedia ambulante dei giochi di ruolo, mentre Aureliano, dopo innumerevoli ore trascorse ascoltando epic metal e guardando a ripetizione la trilogia de Il Signore degli Anelli, era praticamente convinto di vivere all'interno di una saga fantasy (e con il nome che portava, come biasimarlo?).

(Se state pensando che, date le mie descrizioni, i miei amici non rappresentassero proprio la crème della popolarità e della figaggine adolescenziale, non posso che darvi ragione. Alternativi, non sfigati, ricordate? Nella pratica, sembrava che tutti i nostri passatempi e predilezioni suscitassero la perplessità e l'imbarazzo dei nostri coetanei.)

Il pensiero di incontrare Iacopo e gli altri mi rasserenava, ma Viola non si decideva ad abbandonare la mia mente. Scrollai la testa e rivolsi di nuovo lo sguardo ad Alice Cooper, bloccato in una posa contorta, con il cappello a cilindro, il trucco pesante sugli occhi, un pitone vivo intorno al collo e il microfono in pugno: un uomo che non aveva paura di farsi guardare, di urlare in faccia a tutti quello che provava.

"Love should never feel like this? Non so, dimmelo tu, Alice," gli chiesi, sommessamente, "sto sbagliando qualcosa? L'amore è davvero così? Dovrei davvero sentirmi così? O come al solito sono io lo sfigato, mentre una persona normale andrebbe semplicemente da Viola, le farebbe una bella dichiarazione, e se poi lei risponde fico, ti amo anch'io, bene, altrimenti pace e avanti la prossima?" Infervorato, alzai la voce. "Non lo so, Alice, cazzo, dimmelo tu! Dovrei lasciar perdere? Non so cosa mi aspetto che succeda. Non so..."

Mi interruppi nel vedere mia madre ferma sulla soglia: era entrata senza bussare, come al solito. Preso dalle mie elucubrazioni e con la musica a palla, non mi ero accorto che era tornata dal lavoro. Il suo sguardo passò da me al poster di Alice un paio di volte.

"Tu c'hai qualche problema, figlio mio," sentenziò.

Allargai le braccia e la fissai, con una smorfia. "Troppo vero, ma'" ammisi.

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