15. Tutta vita stasera

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Ero davanti al portone di casa di Liliana, rabbrividendo per il freddo e con il dito già sul pulsante del citofono, quando decisi che non sarei andato alla festa.

Io non c'entro un cazzo qui, ma che m'è venuto in mente? disse la voce pavida nella mia mente; una voce che aveva cominciato a mandare i suoi guaiti spaventati già nei giorni precedenti, ma che durante il viaggio in tram verso Piazza del Popolo era riuscita a prendere gradualmente il controllo delle mie facoltà mentali, impossessandosi di un metaforico megafono interiore e sovrastando così le voci che mi avevano sospinto fino a quel momento: Ottimismo, Buon Senso, Fiducia in Me Stesso, Voglia di Rivedere Viola Anche se in Compagnia del suo Ragazzo e così via. Nonostante il martellare incessante di quest'altra voce, che chiameremo Disfattismo, ero riuscito ad imboccare via del Babuino, affollata dai passanti del primo weekend di febbraio nonostante la tramontana ghiacciata, e a raggiungere il civico che mi era stato indicato; ma davanti al lucido portone di legno del palazzo dove abitavano i Vennarucci, il mio coraggio era venuto meno.

Guardai in alto, verso l'attico: le luci erano tutte accese dietro le finestre e, a tendere l'orecchio, potevo percepire il ritmico pulsare della musica ad alto volume. La festa era già in pieno svolgimento. Ero arrivato in ritardo, un po' per colpa dei mezzi pubblici e un po' per strategia: speravo di riuscire a passare inosservato in mezzo alla folla. Ovviamente, nulla di tutto ciò aveva più importanza, dal momento che stavo per darmela a gambe.

Valutai quale sarebbe stata la scusa migliore per dare buca a Liliana: segregato in casa dai miei per via dell'ultimo compito in classe di matematica? Certo non implausibile, avevo preso tre e mezzo e tutta la classe ne era stata testimone. Il sempreverde malore improvviso? Forse troppo classico e abusato. L'imprevista necessità di aiutare Iacopo in un'emergenza? Avrebbe cementato la mia fama di amico leale, ma anche quella di me e Iacopo come gemelli siamesi asociali verso il resto del mondo.

Ricordai che non avevo il numero di telefono di Liliana, ma avevo il suo contatto Facebook: mi aveva mandato una richiesta di amicizia (sorprendendosi per il fatto che non avessi Instagram, il suo social preferito) e io avevo accettato, diventando il suo amico numero duemilaseicentoventitré. Avrei potuto mandarle un messaggio privato su Messenger. Che imbarazzo, però, mentire spudoratamente solo per coprire il fatto che ero troppo vigliacco per presentarmi alla sua festa di compleanno. Forse sarebbe stato meglio andarmene e rimandare le spiegazioni al lunedì successivo. C'era anche la possibilità che nessuno si accorgesse della mia assenza.

Ma sì, figuriamoci a chi importa se non mi presento, disse la voce del disfattismo, riuscendo ad assumere un tono molto realista e razionale. Liliana mi avrà invitato per un capriccio del momento, giusto perché mi aveva visto con l'occhio nero. Le avrò fatto un po' pena, immagino. Scommetto che già si è scordata che devo venire. Di certo non mi sta aspettando con il cuore in gola.

Guardai l'ora sul telefono: che cazzo, c'era ancora tempo per chiamare Iacopo e un paio d'altri e organizzare un film o una birra da Màlstin! Il nodo d'angoscia nel mio stomaco si allentò un poco, al pensiero confortante della casa di Iacopo, di un bel film pieno di botte e sangue sullo schermo, o di una birra sorseggiata al Newcastle Pub in mezzo ai metallari.

Scusa Liliana, ma ti saluto, pensai. Cercando di ignorare il senso di colpa verso la rampolla dei Vennarucci, che aveva avuto la gentilezza di invitarmi alla sua festa, e verso Elio, che mi aveva prestato un maglione in cachemire, un paio di pantaloni stirati con il filo a piombo, un cappotto elegante e un paio di scarpe nere appena una taglia troppo grandi, diedi un sospiro di sollievo — o forse di rimpianto — e girai sui tacchi per andar via.

Prima di poter fare un singolo passo, andai a sbattere dritto su Gabriele Rinaldi, che mi era arrivato alle spalle mentre meditavo davanti al citofono. Un paio di brasche volarono dal mozzicone di sigaretta che gli pendeva dalle labbra, ma nient'altro si scompose in lui: non il sorriso smagliante, non la piega dei vestiti, non i capelli in ordine perfetto, aiutati solo dalla minima quantità di gel necessario. I suoi pettorali da pallanuotista mi avevano fatto rimbalzare via come una pelota basca, ma Rinaldi non si era mosso di un centimetro. Alla sua sinistra, Giulia Venturi restava comodamente attaccata al suo braccio, in equilibrio sui tacchi, e mi guardava con un sopracciglio inarcato.

"Anvedi Leonardino Felici!" mi urlò in faccia Rinaldi, cavando di bocca la cicca e gettandola via. Esalò su di me una nube di fumo e mi assestò una manata sulla spalla. "Tutta vita stasera, eh?"

Quando ero piccolo, se mi capitava di parlare a voce alta in un posto silenzioso, tipo la biblioteca o la sala d'attesa del pediatra, i miei genitori erano soliti redarguirmi con gentilezza, dicendomi di usare la Voce Piano e di riservare la Voce Forte per i giardinetti e il parco giochi. Ero sicuro che la madre di Rinaldi non gli avesse mai insegnato nulla del genere, perché Rinaldi possedeva solo due voci: la Voce Forte e la Voce Fortissima; per giunta, il suo concetto di spazio personale era davvero troppo nebuloso per i miei gusti. Ciononostante, decisi di fare buon viso a cattivo gioco e di ignorare che mi avesse chiamato "Leonardino", nonostante fossi poco più basso di lui e anche tre mesi più vecchio; sorrisi, sperando che la mia espressione non somigliasse troppo ad una smorfia.

"Oh, bella Rinaldi," salutai, fingendo disinvoltura. "Come te butta?"

"Ammazza, te sei vestito figo stasera!" proseguì lui, ignorando la domanda e squadrandomi da capo a piedi con l'espressione e il ghigno tipici, credo, di chi si è appena trovato davanti una scimmietta abbigliata in smoking e cilindro. "Ce potevi veni' con una bella maglietta da metallaro e un po' de borchie, così scandalizzavi l'alta società, no?"

Rinaldi scoppiò in una potente risata alla sua stessa battuta, mentre Giulia sorrideva, senza sbilanciarsi. "Felici, ma sbaglio o te ne stavi andando?" chiese, con un velo di falsa ingenuità.

Due paia d'occhi — castani e beffardi e azzurri ben truccati — rimasero a fissarmi. Sentii le guance diventare calde e il cuore ingranare la marcia.

"No, ma de che?" replicai in fretta. "Sono appena arrivato!" Mi voltai di scatto e pigiai il dito sul pulsante accanto alla targhetta con la scritta "Vennarucci". Meglio affrontare una possibile umiliazione alla festa, che battere in ritirata di fronte a Gabriele Rinaldi e Giulia Venturi.

Il portone scattò senza alcuna risposta dal citofono.

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