20. Bisogna mettersi il cuore in mano

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Il treno Roma-Viterbo era una scatola di latta su ruote, coperta di graffiti e sporcizia sia all'interno che all'esterno, talmente rumorosa e sferragliante che non riuscivo ad ascoltare la musica durante il viaggio, a meno di non alzare il volume degli auricolari a un livello tale da rischiare la sordità — cosa che, quel giorno, preferivo risparmiarmi.

Cambiai posizione sul sedile lurido e spensi il lettore, dopo aver tentato senza successo di metter su Brutal Planet di Alice Cooper. Fuori dal finestrino, scorreva rapida la periferia di Roma nord, nel suo alternarsi di colli, alberi, cartelloni pubblicitari formato gigante e brutti edifici squadrati, resi ancora più grigi dalla luce stinta che scendeva dal cielo d'inverno.

Presi il telefono dalla tasca e diedi una spizzatina a Facebook, ma Viola non aveva postato niente. In effetti, non aveva postato nulla da quando mi aveva aggiunto agli amici, tre giorni prima; non che questo mi impedisse di tirar fuori il cellulare ogni pochi minuti per ripercorrere i contenuti che aveva condiviso dal giorno della sua iscrizione, e che già avevo setacciato avidamente in cerca di informazioni.

Quei pezzetti di vita, messi online nel corso di due anni, erano come tessere di un mosaico che suggerivano una figura completa, senza mostrarla: una passione per la musica che andava dal punk al fricchettone, dal post-punk al moderatamente chitarroso; i ricordi d'infanzia, tra film Disney e reminescenze della Melevisione e dell'Albero Azzurro; una evidente preferenza per i film storici, le commedie all'italiana e i fantasy, oltre a una bizzarra e affascinante inclinazione verso le serie tv degli anni '90. Viola preferiva i gatti ai cani (perfettamente d'accordo, specie pensando ai cani di Elio), il gelato al pistacchio a qualsiasi altro gusto (divergenza: mai sopportato il pistacchio) e aveva messo "mi piace" a decine di pagine di arte e cultura.

Raramente scriveva qualcosa che non fosse un breve commento a un post: non raccontava delle sue faccende personali, non forniva opinioni sulle grandi questioni del momento, non si lanciava in dichiarazioni d'affetto o di antipatia verso altre persone. Tutto sommato, pensavo che quella reticenza nel mettersi sui social fosse già un buon segno — almeno se messa a paragone con la tendenza di certi splendidi a fare la cronaca della loro vita quotidiana, minuto per minuto, su quattro piattaforme diverse.

Meglio ancora: in tutto l'account di Viola, non avevo trovato un solo riferimento al bellimbusto motorizzato.

Le foto erano pochissime e andavano via via diradandosi con il passare del tempo: giudicavo probabile che Viola stesse migrando su Instagram, come tanti miei coetanei e coetanee, e avevo perfino considerato l'idea di aprire un profilo per seguirla anche su quel social. Poi, però, avevo lasciato perdere: intanto sarebbe sembrata veramente una cosa da cyberstalker, e poi non avevo voglia di sorbirmi i selfie e le pose dei miei compagni di scuola, con tanto di filtri sbrilluccicosi. Senza contare che non avrei saputo cosa pubblicare, visto che le mie fotografie sembravano il risultato di qualcuno che avesse impugnato il telefono per leggere un messaggio e avesse premuto il tasto rosso della fotocamera per sbaglio.

Riposi il cellulare, irritato dalla mia coazione a riprenderlo in mano con frequenza sempre maggiore, neanche fossi diventato uno di quei tizi social-dipendenti che io e Iacopo avevamo sempre sfottuto senza pietà. Pescai dallo zaino l'antologia di Lovecraft che avevo preso in prestito dalla biblioteca e aprii il libro dove avevo lasciato il segnalibro. La stazione di Prima Porta distava ancora pochi minuti.

Ero diretto verso casa di Andrea, la mia prima amica (eravamo nella stessa classe alla scuola materna, poi avevamo fatto insieme le elementari), padre italiano e mamma tedesca, che viveva in una villetta su via della Giustiniana — un luogo che per me, abitante del quartiere Flaminio, poteva descriversi con la locuzione in culo alla luna, in braccio alle stelle e che mi costringeva a un viaggio di un'ora e mezza per raggiungerlo: tram, treno, autobus e un pezzo a piedi. Quel giorno, non era solo il piacere di incontrare la mia amica a farmi affrontare il trenino sporco e i ritardi del bus numero 303: avevo intenzione di farle una proposta riguardante la band che stavo provando a mettere insieme.

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