13. Grattati la panza e vivi povero

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Tre giorni dopo, la questione dei vestiti rimaneva ancora senza soluzione.

Il totale delle mie finanze ammontava a ventisette euro: da bravo furbone, mi ero bruciato in poche settimane tutti i soldi di Natale, sostituendoli con libri nuovi, il cofanetto Bluray di Indana Jones e un mucchio di cd, incluso il nuovo dei Motörhead (bomba vera); insomma, con quello che mi rimaneva avrei potuto comprarmi al massimo un paio di guanti e un set di lacci per le scarpe.

Avevo considerato di prendere in prestito dei vestiti appartenenti a mio padre, ma avevo scartato l'idea quasi subito: papà era più alto di me e i suoi abiti mi sarebbero cascati addosso come stracci su uno spaventapasseri. Meglio così, dal momento che si vestiva in maniera improponibile.

C'era poco da girarci intorno: dovevo chiedere ai miei di comprarmi dei vestiti nuovi; almeno un paio di pantaloni e un maglione. Il tempo stringeva. Decisi che avrei sottoposto la mia richiesta quella sera a cena.

"O genitori," esordii, servendo i piatti di pollo con le patate (mi ero offerto volontario per apparecchiare, mettere in tavola, sparecchiare e fare i piatti, sperando che aiutasse le mie possibilità di convincere i miei). "Ho bisogno di un favore."

Mamma affondò coltello e forchetta nella coscia di pollo. "Mmm, questo esordio non promette nulla di buono," affermò, con un sorriso che giocava all'angolo della bocca. "Il favore non potresti chiederlo a quel mostro che sta appeso in camera tua, invece?"

"Madre!" esclamai, ostentando sdegno. "Non insultare Alice Cooper. Magari, già che ci sei, non farti beffe di me. Mi hai visto una volta parlare con il poster, eh."

"Una volta di troppo."

Rebecca ridacchiò con la bocca piena di patate al forno. Erano il suo piatto preferito e le mangiava quattro alla volta, rischiando ogni volta di soffocare, ma rifiutandosi sempre di rallentare.

"Ma torniamo al favore di cui avresti bisogno..." intervenne papà, dividendo la sua attenzione tra me, il piatto ed il Presidente del Consiglio che prendeva la parola sullo schermo della tv.

"Niente, ci sarebbe una festa a cui devo andare," dissi. "Solo che è una cosa un po' più fighetta delle feste a cui vado di solito, e mi sa che non c'ho niente da mettermi..."

"Di chi sarebbe la festa?" chiese mamma.

"Liliana Vennarucci, quella con i soldi a pacchi che ha l'attico a via del Babuino. La festa si svolgerà lì, tra parentesi."

Nell'espressione di mia madre si fece strada un'inconfondibile corrente di incredulità.

"Ma', non fare quella faccia da come ha fatto quel nerdone di mio figlio a farsi invitare a una festa nella dimora dei Vennarucci, per favore," esclamai, un pelo seccato.

"Ma chi t'ha detto cotica!" replicò mamma, divertita.

Rebecca, dal gran ridere, sputò nel piatto un pezzo di patata masticata. "Non avrai un po' la coda di paglia, Leotordo?"

"Becca, pensa a mangiare senza strozzarti, per favore," la rimbrottò papà, bonario. Mia sorella mugugnò le sue scuse.

"Beh, oramai sono invitato, fine," tagliai corto. "Torniamo alla questione principale. Posso avere qualcosa di nuovo da mettermi, così non faccio proprio la figura del peracottaro?"

"Quindi hai bisogno che ti compriamo dei vestiti nuovi?" domandò mio padre, come se non avessi già reso la cosa più che chiara.

"Possibile che non hai niente che va bene per una festa?" aggiunse la genitrice. "Non è mica un ricevimento a Buckingham Palace, dai..."

Sbuffai. "No, non ho niente che va bene," risposi. "Guardate, a me di solito non me ne frega niente di queste cose. Giuro, è la prima e l'ultima volta che ve lo chiedo. Sono disposto a rinunciare alla paga di febbraio. Però mi servirebbero almeno un paio di pantaloni e un maglione, poi credo di avere una camicia da qualche parte, e..."

"Leo, credo che io e tuo padre ti abbiamo già spiegato molte volte che non siamo dei bancomat umani," affermò mamma, assumendo un'espressione seria ma non dura né arrabbiata, quella che usava quando voleva mostrarsi un'autorità ragionevole e che avevo imparato ad associare, negli anni, ai no più assoluti.

"Sai che per tutto il necessario puoi sempre contare su di noi," proseguì papà, conciliante, ragionevole e irremovibile almeno quanto la mamma. "Ma non puoi pretendere di vivacchiare a scuola come fai tu, aiutare un po' a casa — giusto il minimo indispensabile — e poi chiederci di spendere, quanto? Cento, duecento euro? Per dei vestiti che ti metterai solo una volta o due."

Mia madre mise giù le posate e si protese verso di me con un'espressione incoraggiante che, in quel momento, trovai estremamente fastidiosa. "Se vuoi dei soldi in più, puoi cercarti un lavoro," propose. "Una cosa da fare per qualche ora, dopo scuola o nel weekend. Sono sicura che se chiedi in giro nel quartiere..."

"Dici che trovo qualcuno disposto ad assumermi come schiavo per tre euro l'ora?" la interruppi, rivangando le patate al forno con fare indisponente. "Molto gratificante. Così magari riesco a comprarmi due vestiti decenti per quando Liliana farà la sua festa di laurea."

Mia madre si adombrò. "Vabbè Leo, allora fai come ti pare, non lavorare, grattati la panza e vivi povero," dichiarò. "Vedi almeno di usare un po' del tuo abbondante tempo libero per andare meglio a scuola, tra due anni e mezzo fai la maturità e ancora ti trascini questa media del sei..."

Veramente è del sei e mezzo, pensai. Fui anche sul punto di dirlo ad alta voce, ma il mio buon senso ebbe la meglio e scelsi il quieto vivere. Rimasi per il resto della cena in un silenzio ombroso, lasciando volentieri la parola a Rebecca, che ci stordì illustrandoci, con minuzia di particolari, tutte le idee che aveva avuto per l'organizzazione della sua festa di compleanno — la quale, peraltro, distava ancora un mese e mezzo. Ero sicuro che, se non avessi rovinato l'umore dei nostri genitori con la mia brillante osservazione, avrebbe cercato di rilanciare la richiesta di avere in dono uno smartphone, cosa che mamma e papà avevano dichiarato impossibile almeno fino al compimento del suo dodicesimo anno.

Dopo aver sparecchiato e ficcato i piatti in lavastoviglie, andai a rintanarmi in camera mia, dietro la porta ben chiusa. Misi nello stereo un cd dei Guns, mi stravaccai sul letto e guardai verso il poster di Alice Cooper, sperando che potesse aiutarmi ad avere un'idea geniale.

Ora, non so se fosse per merito di Axl Rose che intonava Estranged o dello zio Alice che mi fissava con i suoi occhi da matto, ma gli ingranaggi del mio cervello si misero in moto e, alla fine, fui raggiunto da un'idea. Non un'idea geniale, ma era già qualcosa.

Tra i miei amici non ce n'era nessuno splendido nel modo in cui lo erano Rinaldi o Ballatore o i Tre Stronzi, ma ce n'era uno ricco—anche se disdegnava come noi le discoteche, gli aperitivi, gli accessori di marca e tutti gli altri sigilli della splendidezza adolescenziale. Si trattava di Elio, e se c'era una persona che poteva avere qualche vestito di classe nell'armadio, quello era lui. Di classe. Puah! Cominciavo a disgustarmi da solo, a pensare in quei termini. Desiderai che la festa arrivasse e passasse il più in fretta possibile, per poter tornare a ignorare con gioia la mia povertà e a indossare maglioni in tinta unita e felponi con il cappuccio.

Presi il cellulare, selezionai Elio dall'elenco dei contatti e indirizzai un messaggio Whatsapp nella sua direzione. Le parole Elio sta scrivendo... comparvero sullo schermo meno di dieci secondi dopo.

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