19. Faccia da poeta decadentista

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Dopo mesi di sofferenze, ero riuscito a rivolgere la parola a Viola, ma la parte difficile arrivava adesso: per far sì che il nostro non rimanesse un incontro casuale, dimenticato (da lei) dopo una settimana al massimo, dovevo continuare a rivolgergliela. Così andavo rimuginando, mentre l'autobus mi trasportava a scuola il lunedì mattina, premuto in mezzo a un mucchio di persone con facce tetre da inizio settimana; il mio stomaco era stretto da un'ansia sottile che nemmeno Alice Cooper — il quale, come di consueto, mi stava cantando nelle orecchie — riusciva a dissipare.

Sapevo cosa avrei dovuto fare: trovarmi "per caso" sulla traiettoria di Viola, salutarla con naturalezza, piazzare una battuta sulla festa di sabato, chiederle com'era andata dopo che ero dovuto sparire in anticipo. Poi da lì improvvisare, seguire il filo della conversazione, assicurarsi di concludere con un "ci vediamo".

Tutto molto semplice e razionale... sulla carta, almeno.

Smontato dall'autobus, girato l'angolo e arrivato davanti al cancello di scuola, azionai subito gli occhi telescopici per rintracciare i capelli biondi della ragazza dei miei sogni. Non trovando Viola nei capannelli che si attardavano in strada, nello spazio compreso tra il cancello e il baretto, feci il mio ingresso in cortile e continuai a guardarmi intorno.

Finalmente, la vidi seduta presso un oleandro, seminascosta dietro un gruppetto di quartini o quintini con facce brufolose e vestiti da hippoppettari. Aveva un libro scolastico aperto sulle ginocchia e le sopracciglia aggrottate in un'espressione concentrata: doveva esserci un'interrogazione in arrivo. Mentre la guardavo, giocherellò con uno dei suoi orecchini rigirandolo fra pollice e indice, un gesto così armonioso da farmi vibrare il cuore come la corda di una chitarra.

Un attimo dopo, giunse la considerazione che non avrei potuto trovarmi "per caso" sulla traiettoria dei suoi passi: sarei dovuto andare da lei a salutarla.

Ma non se ne parla nemmeno, pensai, con l'ansia stretta intorno allo stomaco che si trasformava in un triplo nodo da marinaio. Sta ripassando, e se le rompo le scatole? E se mi vede e fa la faccia infastidita?

Il mio cervello — potevo sempre contare su di lui, quando si trattava di mettermi angoscia — mi spedì l'istantanea mentale di quella faccia infastidita e del modo con cui avrebbe contratto i lineamenti di Viola, la quale sarebbe stata certo troppo gentile per dirmi di togliermi dalle scatole e lasciarla in pace — ma avrebbe lasciato trasparire sufficiente imbarazzo e seccatura dai suoi gesti da indurmi a battere in ritirata e sotterrarmi per sempre nella mia vergogna e nella mia solitudine.

Dai miei auricolari, Alice Cooper iniziò a cantare And then I say, you drive me nervous nervous nervous, yeah! e decisi di spegnere perché sembrava mi stesse prendendo un po' per il culo.

Aspetterò il suono della campanella e la intercetterò vicino al portone d'ingresso, pianificai. Questo pensiero mi confortò per un momento, ma oramai il danno era fatto: quando la campana trillò e gli studenti si mossero verso l'edificio scolastico, diretti alle lezioni quotidiane, l'ipotetica faccia infastidita di Viola lampeggiò di nuovo davanti all'occhio della mia mente; la mia determinazione, a quel punto, venne meno e, invece di farmi avanti, mi imboscai dietro una colonna del portico, guardando passare Viola con sguardo anelante, mentre una colata di cemento si disponeva sul mio cuore e le mie viscere.

Inutile dire che la cosa mi mise di un umore talmente nero che non mi passò neanche per la testa di tentare qualche approccio durante la ricreazione. Restai in classe, così da non dover incontrare neanche Iacopo; avevo la musica nelle orecchie (i System of a Down — chiaro segno del deteriorarsi del mio stato mentale) e il quaderno degli appunti di Dungeons & Dragons aperto davanti. Ogni tanto scribacchiavo qualcosa, senza riuscire a concentrarmi. Odiavo quella situazione, odiavo non riuscire a far nulla per cambiarla, odiavo trovarmi a scuola invece che chiuso in camera mia e soprattutto odiavo me stesso e la mia cronica mancanza di spina dorsale.

Stavo ribollendo dalla frustrazione. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa, per non finire a sbattere la testa al muro. Presi il telefono e trovai il profilo Facebook di Viola, con la stupida foto di quel gatto puccioso con gli auricolari e gli occhiali da sole. Il mio dito aleggiò sopra il tasto per richiedere l'amicizia.

Che cosa mi costa? Non è niente. Tutti chiedono l'amicizia a tutti in questo fantastico mondo social. Niente di cui sentirsi in imbarazzo.

Eppure mi sentivo in imbarazzo, eccome. Non per la prima volta, mi trovai a meditare che forse non ero fatto per questa modernità fatta di mille profili online, condivisioni e richieste di following, nella quale tutti gli altri — inclusa mia sorella, non ancora uscita dalla quarta elementare — sembravano sguazzare benissimo. Magari, sarei stato più felice nel diciannovesimo secolo, scrivendo lettere ai miei corrispondenti dalla mia tenuta di campagna, sposandomi con un matrimonio combinato e morendo di tubercolosi a trentadue anni, giusto per togliermi anche la paura del futuro.

"Ah-ha! Lo sapevo che ti trovavo qui!" esclamò una voce squillante, che mi strappò a quelle allegre considerazioni sovrastando il baccano dei System. Alzai gli occhi per vedere Liliana, in piedi davanti a me con una mano posata sul fianco e il suo solito sorrisetto — per metà beffardo e per metà affettuoso — sul viso.

Misi frettolosamente via il cellulare. "Ehi, Liliana," la salutai, senza riuscire a metterci troppo entusiasmo. Avrei preferito di gran lunga passare la ricreazione senza vedere nessuno.

Se Liliana aveva fatto caso al mio tono, non lo diede a vedere. "Musica caciarona nelle orecchie, quaderno degli appunti segreti, faccia da poeta decadentista," elencò, allegra, "e chiuso in classe tutta la ricreazione. Lo sapevo che venire alla mia festa non ti avrebbe tolto l'alone di mistero..." Liliana lasciò in sospeso l'ultima parola e fece con le mani il gesto di scrutare in una sfera di cristallo, o forse in uno specchio magico.

"Non avevo voglia di stare in mezzo alla gente," replicai, marcando la parola gente per farle capire che in quella categoria era compresa anche lei. "Troppo casino in cortile. Oggi non è aria..."

Liliana si appoggiò al banco accanto al mio e inclinò la testa con atteggiamento partecipe, facendo oscillare la sua gloriosa chioma ondulata.

"Colpa di questa ragazza di primo F che ti piace?" chiese. "Guarda che non devi dirmi chi è... anche se sono curiosissima, a dire il vero! Avete parlato? Se non t'ha filato, deve essere una un po' stronza; non vale la pena di perderci tempo."

Nella voce di Liliana c'era una sfumatura di dolcezza che sembrava prevalere sull'intento pettegolo, ma le sue domande mi irritarono lo stesso. Mi morsi la lingua per trattenere una risposta sgarbata.

"Liliana, ti ringrazio per l'interessamento, ma non ho voglia di parlarne," dissi, forzando un tono sussiegoso. "Voglio solo ascoltare musica per il resto della giornata e poi dimenticarmi che questa giornata sia mai esistita." Cazzo, sembravo Iacopo in fase scoglionata. Uguale identico.

Il sorriso della mia interlocutrice vacillò. "Lo ripeto, Leo, io non ti capisco," affermò, scuotendo piano la testa.

"Beh, per fortuna mi capisco io da me," borbottai. Il che, la maggior parte delle volte, non era neppure vero.

Liliana inarcò le sopracciglia, sospirò e infine allargò le mani con l'aria di chi non può farci niente. "Ok, messaggio ricevuto," disse, con un tono risentito che si insinuava, ben udibile, nella sua voce. "Ti puoi rimettere le cuffiette, dai. Sto andando via."

Muovendosi con grazia sinuosa, Liliana andò al suo banco, frugò nella borsa, tirò fuori un pacchetto di Gauloises e infine uscì, senza degnarmi di un altro sguardo.

Rimasto da solo nella classe grigia, mi sentii il più stupido dei faggiani.

Tirai fuori il cellulare e tornai al profilo di Viola. Basta pippe mentali, pensai. Dopo due ulteriori minuti di esitazioni, inviai la richiesta di amicizia. Al diavolo, probabilmente si è trasferita su Instagram e Facebook manco lo usa più. Rilasciai un respiro che non mi ero accorto di aver trattenuto, intascai lo smartphone e mi rimisi le cuffiette. Serj Tankian confortò le mie ansie con la sua cantilena tetra.

The piercing radiant moon
The storming of poor June
All the life running through her hair...

*

*

*

Sette ore e quarantacinque minuti dopo, una notifica mi informò che Viola aveva accettato la mia richiesta di amicizia.

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