17. In rotta di collisione con la mia idiozia

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"Leo, fai qualcosa cazzo! Vuoi restare qui tutta la sera?" dissi alla mia immagine riflessa nello specchio del bagno. L'espressione che vedevo sul mio volto rispose con chiarezza: Sì!

Era passata un'ora da quando Viola era comparsa davanti a me, bella da restarci secchi nel suo maglioncino nero e verde, con un po' di trucco e i capelli raccolti dietro la nuca da un fermaglio a forma di sole. Ero rimasto imbambolato per qualche secondo a guardarla, ma poi una ragazza di primo F che stava parlando con Viola si era voltata nella mia direzione e i suoi occhi si erano soffermati su di me per un momento di troppo; temendo di poter essere riconosciuto come il protagonista dell'incidente della palla da basket, ero scappato a gambe levate.

Avevo fatto in tempo, però, a registrare un'informazione fondamentale: Viola non era venuta alla festa accompagnata dal suo muscoloso boyfriend.

L'ora successiva l'avevo trascorsa mimetizzandomi fra gli invitati, senza perdere d'occhio Viola, e nel contempo cercando di pensare ad una scusa per avvicinarla e presentarmi. Non mi veniva in mente niente, però; tra l'altro, il rumore prodotto dalla gente intorno e da quell'insopportabile pseudo-musica rendeva difficile concentrarsi sulla pianificazione di una tecnica d'approccio efficace. Per non destare sospetti, mi ero messo ad aleggiare ai margini di un capannello che includeva un paio di persone di classe mia — nessuno di particolarmente splendido, per fortuna — e ogni tanto dovevo anche ricordarmi di annuire o sorridere alle cazzate che stavano dicendo. Per aiutarmi, sorseggiavo ogni tanto dal mio bicchiere, ma non volevo esagerare, per paura che l'alcol mi inducesse a prendere decisioni avventate.

Alla fine, però, l'unica decisione che avevo preso era stata di chiudermi a chiave in uno dei tre bagni dell'attico di Liliana. Nel vedere la vasca con idromassaggio, grande come una piscina olimpionica, ero stato tentato di riempirla, spogliarmi e tuffarmi dentro, dimenticandomi di tutto; invece, avevo appoggiato sul lavandino il cocktail bevuto a metà e mi ero messo a litigare con il mio riflesso.

Viola è lì fuori e non si stacca dalle sue amiche. Riesci a pensare a qualcosa che potresti dire che non ti faccia sembrare un completo imbecille?

Scrutai il fondo delle mie pupille. "No, non ci riesco," mormorai.

Aggiungi che sei pure brillo e che la tua fama di lanciatore di palloni in faccia e calamita per cazzotti ti precede. Vedi te.

Davanti alle argomentazioni portate dal mio monologo interiore, dovetti cedere. Non potevo rivolgere la parola a Viola in quella situazione. Com'era possibile che qualcuno riuscisse ad andare da una ragazza sconosciuta e mettersi a parlare con lei? Sapevo che, in teoria, era possibile farlo—ma ne ero consapevole come del fatto che certe persone sapessero fare i giocolieri con tre motoseghe accese, oppure risolvere a mente disequazioni lunghe un palmo: era una cosa al di fuori delle capacità che possedevo; anzi, al di fuori delle capacità che potevo immaginare di possedere.

"È tutto inutile," dissi. Guardai i capelli castani che ogni tanto mi ripromettevo di lasciar crescere come stava facendo Iacopo, ma poi tagliavo sempre, perché preferivo le cose familiari, fossero posti dove uscire la sera, musica o acconciature. Guardai gli occhi nocciola condivisi con mia madre e mia sorella, il livido procuratomi da Santarelli, che ormai virava al giallino sbiadito, le sopracciglia troppo folte, il mento troppo appuntito, i residui dei brufoli che avevo annientato alla base del naso. E Viola avrebbe dovuto guardare me invece del suo bellimbusto? Ridicolo.

"Viola, ci ho pensato a lungo e mi sa che non sono il tuo tipo," affermai, gesticolando con un dito verso la mia immagine riflessa. La mia voce aveva cominciato a impastarsi. "Il che vuol dire, tutto sommato, che tu non sei la mia tipa. Probabilmente. Quindi sarà meglio vivere la nostra vita per i cavoli nostri: tu con il tuo bellimbusto, io con i miei amici e con Alice Cooper e con Pornhub."

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