Due.

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Chiamo il mio manager non appena arrivo in albergo.

«Ti serve solo un po' di tempo per calmarti. Facciamo così: ti cancello tutti gli impegni della giornata. Il volo per Roma è domani alle 17. Hai un giorno intero per fare tutto quello che vuoi. Io ti vengo a prendere domani in aeroporto.»

«Grazie Leo.»

«E di cosa. Dai, ti lascio in pace.»

Mi faccio una doccia e prendo in considerazione l'idea di mettermi a dormire.

Dalla finestra vedo Milano inondata dal sole caldo. Prendo l'iPhone e leggo alcuni messaggi, di cui alcuni di Bea che vuole sapere com'è andata l'intervista. Potrei chiamarla, ma poi ripenso al consiglio di Leo di staccare da tutto, così imposto l'iPhone in modalità "non disturbare" e lo rimetto in tasca. Prendo portafoglio e occhiali da sole ed esco.

La città comincia ad affollarsi, forse perché verso il tardo pomeriggio il caldo è più sopportabile. Mi compro un hot dog e una birra e mi rendo conto di essermi dimenticato di pranzare dopo l'intervista. Penso al tour, sette date che mi sembrano un numero spropositato, ma che in realtà non sono niente in confronto ai numeri a cui ero abituato con i Maneskin. Sette date, sette città diverse, sei italiane e una in Svizzera, tante ore in van, in treno, o in aereo.

Se chi mi sta attorno potesse sentire i miei pensieri, sicuramente mi prenderebbe per pazzo. Ma non Beatrice. Lei direbbe che me la merito questa vita, perché è la vita dei miei sogni, perché ho sudato sangue per arrivare fin qui, e che me la dovrei godere di più e non angosciarmi così.

Faccio per prendere una sigaretta, ma il pacchetto è vuoto, così mi fermo a comprarle, mentre il sole ormai comincia a nascondersi dietro i palazzi. Davanti a me ci sono due ragazzini che si tengono a braccetto, ridono e scherzano tra loro. Lei è bionda.

"Non pensare a cose a cui non dovresti", mi dico. Guardo verso il cielo per distrarmi, ma quando alzo lo sguardo vedo il colore dei suoi occhi con le sfumature del tramonto.

Smetto di guardare il cielo e vedo ancora i suoi occhi, ma non come mi li sono immaginato finora, nei volti della gente per strada, o prima di svegliarmi da un sogno bellissimo. Questa volta sono veramente i suoi, in una fotografia. Sono contornati da uno strato spesso di trucco nero e ha il basso in mano. Ha i capelli più lunghi di come ricordavo, sempre biondissimi. Accanto a lei c'è la sua nuova band, che ormai nuova non è perché è più di un anno che suonano insieme.

Qualche mese fa Ethan mi ha mandato un articolo di una rivista che parlava delle giovani protagoniste della musica italiana. C'era una pagina intera su Victoria. L'ho conservato per un po' di tempo, tirandolo fuori ogni tanto per rileggerlo. Ho ritagliato la sua foto e l'ho messa nel portafoglio, ben nascosta. Se Bea mi avesse beccato ci sarebbe stata un'esplosione atomica in casa.

Dopo circa un mese ho buttato tutto, articolo e foto, costringendomi definitivamente a metterci una pietra sopra.

Guardo meglio il volantino e i suoi occhi sono sempre lì, puntati su di me. E ho l'assoluta certezza che stasera suonerà qui.

E senza pensarci, prima di convincermi a non farlo, di realizzare che si tratta di una pessima idea, salvo il nome del locale e la posizione su Google Maps.

"Non voglio vederla", mi dico. "Voglio solo sentirla suonare".

Così, alle dieci sono di nuovo lì, seduto al bancone del bar con un cocktail tra le mani, pensando a quand'è stata l'ultima volta, sentendo esattamente la stessa voglia, la stessa impazienza che arrivasse il momento di salire sul palco e cantare al suo fianco. Ma so che stasera non la toccherò, non la bacerò sulla guancia alla fine, non sarò lì con lei, alla sua sinistra.

Stasera ascolto, e basta.

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