Sei.

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Quando esco in strada mi tremano ancora le mani. Il locale è affollato anche qui fuori, c'è molta gente con una sigaretta in una mano e un bicchiere di plastica nell'altra. Mi sento i loro sguardi puntati addosso e so che ora non sopporterei di essere riconosciuto ed accerchiato da una folla di fan. Voglio solo scappare.

"È colpa tua se sei venuto qui stasera", dico a me stesso. "Avresti fatto meglio a startene in albergo".

Accendo anch'io una sigaretta sperando di calmarmi almeno un po'. Devo solo riuscire a tornare in albergo, magari dormire qualche ora, lasciandomi alle spalle per sempre questa giornata disastrosa.

«Dovresti smettere.»

La sua voce mi fa sussultare. E in qualche modo mi tranquillizza anche.

«Quante ne hai fumate oggi?», mi chiede. Ed è come se all'improvviso tutti quegli anni di silenzio che ci separano fossero scomparsi.

«Troppe», ammetto.

«Me ne dai una?»

«Tu fumi, ora?»

«No, ma dicono che le sigarette rilassino parecchio, e ne avrei bisogno in questo momento.»

«Posso immaginare, dopo un concerto del genere.»

Le allungo il pacchetto con la mano tremante, ma quando la sua sta per sfilarne una, ritiro il braccio.

«Non ti darò una sigaretta.»

«Okay.»

Fumo in silenzio per qualche istante.

«E, comunque, non è per il concerto che ho bisogno di rilassarmi. È per te, Damiano.»

"Calmati", mi dico. È normale che sia nervosa, sono sbucato dal nulla dopo così tanto tempo. Ma se l'ho agitata, vuol dire che le importa ancora qualcosa di me.

Mi accorgo che si porta una mano sullo stomaco. Mi ricordo che, prima di suonare, Victoria non toccava mai il cibo, e dopo aveva sempre una fame da lupi. Così ce ne andavamo al suo ristorante preferito, a mangiare quintali di schifezze e patatine fritte.

«Hai fame?»

«Come se non mangiassi da una settimana.»

Restiamo un attimo in silenzio, prima che io faccia un'altra delle tante stronzate collezionate in giornata.

«Il McDonald's è ancora il tuo ristorante preferito?», le chiedo.

Dalla tasca arriva la suoneria del suo iPhone. Lo prende, guarda lo schermo e fa una smorfia, ma non risponde.

«Prima le patatine fritte», sorride.

Attraversiamo la strada e proseguiamo lungo il marciapiede. Lei cammina a passo svelto, ma come una guida turistica mi indica tutte le curiosità della città, ed io vorrei chiederle se vive ancora qui o se è solo di passaggio per il concerto.

Il suo iPhone suona di nuovo.

«Scusa, devo rispondere.»

Continuiamo a camminare mentre non ho idea di con chi stia parlando e di che cosa.

«Lo so che è importante, mi dispiace, davvero, giuro. Non sono sparita! Vi ho anche salutati prima di andare via.»

Non fa il mio nome e neanche sembra ricordarsi che sono accanto a lei, mentre la gente fuori dai locali della via mi riconosce e alcuni scattano anche delle foto.

Per un attimo penso che se le dovesse vedere Bea su Instagram, finirei in guai seri. È già gelosa di Victoria per come sono andate le cose in passato, nonostante non l'abbia mai conosciuta di persona, ne ha solo sentito parlare. A volte, quando scoppia a piangere dopo un litigio, mi dice di non sentirsi all'altezza della situazione, di non sentirsi all'altezza di Victoria. Ma chi lo sarebbe?

«Damiano? Damiano David?»

Mi metto gli occhiali da sole e aumento il passo. Prendo Victoria per un braccio e la trascino con me.

«Cammina, non fermarti. Se ti fotografano con me è finita.»

Si aggrappa al mio braccio e deve quasi correre per starmi dietro ed è costretta a riattaccare il telefono. Anche se è molto più piccola di me, averla lì, avvinghiata al mio braccio, mi fa sentire stranamente al sicuro, molto più che con una guardia del corpo, come un angelo custode.

E mi chiedo se Victoria sappia di me e Beatrice. 

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