«Damiano.»
Sono accucciato in un angolo della sua cucina, tremo come una foglia, sono ubriaco e tutto sudato. Un perfetto psicopatico.
Arriva davanti a me e mi alza il mento con due dita.
«Vieni, alzati.»
Victoria mi accompagna fino al divano e mi fa cenno di sdraiarmi. Mi tolgo le scarpe e mi lascio cadere, sprofondando la testa tra i cuscini morbidi che profumano di casa sua, di lei. Mi copre con una coperta e me la rimbocca come faceva mia madre quando ero piccolo. E mi addormento subito.
Quando mi sveglio, l'appartamento è inondato di luce ed io mi sento così riposato che per un attimo temo di aver dormito per un giorno intero. Cerco con lo sguardo un orologio e lo trovo nella parete sopra di me. Sono quasi le due del pomeriggio e io ho un volo alle cinque.
Sento delle gambe insinuarsi attorno alle mie, dei piedi che scavano contro i miei come quando li aveva gelati e cercava di scaldarsi. Victoria è lì, dorme accanto a me. Il suo viso ora è rivolto verso il mio, il suo petto si alza e si abbassa a ritmo del suo respiro così tranquillo e familiare. Non sembra avere alcuna intenzione di svegliarsi, non ancora. Ha una ciocca di capelli davanti al viso. Senza riflettere, gliela sposto, sfiorandole la fronte con le dita. Sembra tutto così normale, oserei dire abitudinario, come se gli ultimi tre anni non fossero mai esistiti. Sono quasi tentato di accarezzarle la guancia morbida, tracciare il profilo delle sue labbra soffici, baciarle la fronte per proteggerla da tutto.
La guardo e sembra la stessa Victoria di una volta, e allo stesso tempo sento che invece qualcosa è cambiato, che lei è cambiata.
Vorrei svegliarla, ma non ci riesco, qualcosa me lo impedisce, mi impedisce di toccarla ancora. Decido di alzarmi, mi stiracchio un po' e inizio a girare per l'appartamento. Ero così preso dagli eventi, ieri sera, che è come se non avessi visto niente. Adesso, invece, vedo che c'è una strana somiglianza tra questo appartamento e la cameretta disordinata dove è cresciuta. Ci sono gli stessi poster alle pareti e le stesse decorazioni. E le foto. Sono ovunque: sulle pareti, su ogni centimetro dei ripiani e delle mensole. Ce n'è una con suo padre e sua sorella, un sacco con sua sorella e basta, una di quando era piccola, con quel solito sorriso da bambina sulle labbra, e tante altre con la sua famiglia in Danimarca.
Attraverso la piccola cucina e noto che anche il frigorifero è tappezzato di foto, questa volta con i suoi amici. Mi saltano all'occhio i volti di Thomas ed Ethan, che mi fanno improvvisamente ricordare che la loro amicizia non è finita, ma che esiste una storia di cui io ora so ben poco, o niente. Non c'è nessuna fotografia che mi ritrae. Camera sua ne era piena. Le adoravo, quelle foto stupide che ci scattavamo a vicenda per prenderci in giro, o quelle in cui gli stampavo un bacio sulla guancia, o quelle in cui facevamo le smorfie. Le adoravo, perché non erano perfette, mancava sempre mezza testa o erano sfocate, ma erano vere.
Esco in giardino per fumarmi una sigaretta, poi torno dentro. Guardo l'ora. Devo tornare in albergo, fare la valigia, andare in aeroporto. Ma non voglio scappare, voglio salutarla come si deve.
Un tempo, quando dormivamo insieme, non c'era verso di svegliarla. Così la lasciavo dormire finché proprio non ero obbligato a farla alzare o avremmo fatto tardi per i vari impegni. Le portavo la colazione a letto, la accarezzavo delicatamente con le dita, fino a che lei non alzava la testa dal cuscino e schiudeva gli occhi che avevano lo stesso colore del cielo sereno del mattino.
Decido di fare il caffè. Vado in cucina ed è come se sapessi già dove trovare le cose. Prima che il caffè sia uscito del tutto dalla caffettiera, la vedo che si stiracchia sul divano. I suoi occhi si spostano su di me. Mi guarda.
«Stavo sognando», sbadiglia e si stiracchia un'altra volta. «E tu mi hai svegliata.»
«Scusa», rido.
Rimango di nuovo a fissare le fotografie attaccate al frigo e lei se ne accorge.
«Mi tengono compagnia.»
«Ne hai tante.»
Mi raggiunge in cucina, apre uno sportello e prende due tazze. Rimango a bocca aperta quando noto che si è portata dietro la sua tazza preferita, quella con la scritta Queen. Poi ne noto un'altra: King. Quella era la mia. Ed è quasi come avere la mia foto sul muro, un pezzettino di me che sopravvive ancora nella sua quotidianità, nonostante il resto non possa più esistere.
Victoria riempie le tazze di latte e aggiunge il caffè. Mette lo zucchero nella sua e si ricorda che io invece lo preferisco senza. Prende i cereali dallo scaffale e si siede al tavolo, indicandomi di fare lo stesso.
«Corn flakes o riso soffiato?»
«Riso soffiato.»
Non ho fame. Dubito di riuscire a mandare giù anche solo un chicco di riso soffiato, ma lo faccio, perché dopo tanto tempo riesco finalmente a sentirmi a casa.

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If You Stay
Fanfiction"In quegli occhi occhi blu io mi ci posso specchiare, e vedo me stesso, vedo me stesso felice."